Giradischi: Fabrizio De Andrè, la tragica epopea di ribellione di Storia di un Impiegato

Era il 1973, Fabrizio De Andrè pubblicava il suo sesto album in studio Storia di un Impiegato.

Appena un anno dopo Faber, parlando di questo lavoro in un’intervista disse: “Quando è uscito Storia di un impiegato avrei voluto bruciarlo. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile. L’idea del disco era affascinante. Dare del Sessantotto una lettura poetica, e invece è venuto fuori un disco politico. E ho fatto l’unica cosa che non avrei mai voluto fare: spiegare alla gente come comportarsi”.

Erano i primi anni ’70, l’Italia si trovava in una situazione difficile. Gli strascichi delle rivolte del ’68 erano ancora evidenti e, allo stesso tempo, il paese si trovava proiettato verso gli anni della mediocrità borghese e delle stragi dei terrorismi di Stato. Erano gli anni dell’individualismo anarchico dove le ribellioni sessantottine venivano sublimate negli attentati dinamitardi, spesso troppo individuali e sterili, che non hanno portato a nulla se non a morti ingiustificate

Storia di un Impiegato, una tragica epopea di ribellione alla mediocrità borghese.

È in questo squarcio temporale che nasce Storia di un Impiegato, un disco che dipinge la “tragica” epopea di ribellione di un impiegato, immerso fino al collo in quella mediocrità borghese da cui cerca di divincolarsi nell’unico modo che conosce e, forse, nell’unico modo possibile: l’individualismo dinamitardo, sterile e privo di riscontri.

Gli intenti saranno anche “elevati”, così come le passioni, ma in fin dei conti la mediocrità è tale proprio perché non permette a chi vi è immerso di uscirne nemmeno con tutta la buona volontà.

La presa di coscienza avviene con La Canzone del Maggio, brano che parla della rivolta studentesca francese del 1968 che in breve tempo avrebbe scosso le fondamenta e le certezze dell’Occidente: “E se vi siete detti  “non sta succedendo niente”, le fabbriche riapriranno,  arresteranno qualche studente. Convinti che fosse un gioco a cui avremmo giocato poco, provate pure a credevi assolti siete lo stesso coinvolti”, oltre che la straordinaria attualità di queste parole, ciò che colpisce l’impiegato è l’auto-convinzione di una qualche assoluzione. Il disinteresse generale verso la ribellione sfocia nel disperato tentativo collettivo di non sentirsi responsabili.

Proprio da questo brano inizia la rivolta interiore, prima, e poi dinamitarda, che nonostante i ripensamenti (La Bomba In Testa) alla fine sarà compiuta in modo metaforico e onirico.

Il Ballo Mascherato (della celebrità) è il luogo dove i simboli dell’Occidente, coi volti coperti dalle maschere, rappresentano la decadenza morale, culturale e sociale. Ed è il luogo dove l’impiegato compirà il suo attentato, perché niente come il tritolo è imparziale: distrugge l’equilibrio e non risparmia nessuno, riversa la sua rabbia distruttiva su tutti, nessuno escluso: “La bomba non ha una natura gentile, ma spinta da imparzialità  sconvolge l’improbabile intimità  di un’apparente statua della Pietà”.

Sogno numero due è un processo onirico all’impiegato che col suo gesto non si è ribellato al potere ma ha fatto il suo stesso gioco: il potere nelle mani di una singola persona sfocia nel desiderio supremo di essere giudice, giuria e boia favorendo quindi il potere stesso: “E se tu la credevi vendetta il fosforo di guardia segnalava la tua urgenza di potere, mentre ti emozionavi nel ruolo più eccitante della legge: quello che non protegge, la parte del boia”.

Giudice, giuria e boia: un processo onirico alla classe dirigente.

E così l’impiegato, dopo il processo onirico, cede al compromesso e alla sicurezza della routine e della stabilità sotto l’ombra del padre (La Canzone del Padre). E’ questo l’incubo che si manifesta da cui è difficile svegliarsi: l’incubo di una vita già programmata da cui è difficile, se non impossibile, scappare. La vita, appunto, della scelta borghese sui passi del padre. Ma da questo incubo ci si può svegliare, e prima del risveglio una promessa: quella amara di una bomba vera, fuori dal sogno: “Vostro Onore, sei un figlio di troia, mi sveglio ancora e mi sveglio sudato, ora aspettami fuori dal sogno, ci vedremo davvero, io ricomincio da capo”.

Il Bombarolo, è questo il destino dell’impiegato, che deciderà di riversare, finalmente, la sua rabbia verso il vero simbolo del potere, il Parlamento, ma anche verso gli intellettualoidi con le loro rivoluzioni piene di retorica e di simboli incomprensibili alla massa.

Un gesto di lucida follia dalla preparazione dell’ordigno alla crociata solitaria contro il potere e contro la retorica della rivoluzione. Crociata che sfocia nel paradosso del terrorizzare chi terrorizza: “Per strada tante facce non hanno un bel colore, qui chi non terrorizza  si ammala di terrore. C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo, io sono d’un altro avviso, son bombarolo”.

Ma non tutte le rivoluzioni vanno come dovrebbero, la bomba rotola e manca il suo bersaglio distruggendo un chiosco di giornali. L’impiegato vede nella sua testa ciò che accadrà: dopo la rivoluzione fallita, la solitudine e l’abbandono della donna amata che lo disconoscerà per il suo gesto, lasciandolo solo nel ridicolo ma sulle prime pagine dei giornali.

E dal carcere poi, il primo pensiero sarà quello per la donna amata: Verranno a Chiederti del Nostro Amore è una lettera colma di rimpianto per quelle distanze mai accorciate. E’ la richiesta di non dimenticare e di non cedere al fascino della fama nelle dichiarazioni sui giornali.

Questa canzone è la sintesi di questo rapporto cresciuto nella mediocrità, che non esita a scappare e a cedere alla staticità del “programmato a tavolino” e alla fine la domanda: “o resterai più semplicemente dove un attimo vale un altro senza chiederti come mai, continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?”, cerca quasi di spronare la donna amata a una ribellione, magari senza tritolo, ma comunque una ribellione dai canoni borghesi.

E paradossalmente una rivoluzione fallita in “libertà” si compie dietro le sbarre, “in mezzo agli altri vestiti uguali”, l’ultimo brano, Nella Mia Ora di Libertà, parla della collettività che poi è l’ingrediente base per ogni rivoluzione.

In carcere l’uomo perde la libertà, la dignità ma acquista un senso di appartenenza che va oltre la sterile singolarità e che arriva come compimento di un cammino “ideologico” portando l’impiegato a capire “che non ci sono poteri buoni” e che non c’è ribellione che possa funzionare senza l’aggregazione.

E allora la rabbia verso il potere, verso il sistema e verso i secondini può venire fuori liberamente ed essere incanalata verso un qualcosa di possibile: la rivolta comune, appunto, che genera l’amara consapevolezza che riporta alla  Canzone del Maggio col grido collettivo e consapevole del “per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”.

Storia di un Impiegato, gli anni ’70 tra rivolte sterili e falsi miti.

Era il 1973 e Storia di un Impiegato suonava dai giradischi, sputando dalle casse l’amaro verdetto, o l’amaro riassunto se volete, di una rivoluzione soffocata da se stessa sul nascere e intrisa di idealismi e falsi miti troppo lontani o troppo irreali per essere veramente compresi dagli “intellettuali d’oggi e idioti di domani”.

Storia di un Impiegato è un capolavoro dell’arte italiana che va ben oltre la musica, ben oltre le parole e ben oltre l’ideale. Questo disco è un cammino di coscienza e, nonostante sia cupo e disilluso nei testi e negli accordi, riflette una qualche speranza. Forse un buon auspicio per le generazioni future che non hanno vissuto gli anni 60 e 70 sulla loro pelle, ma potrebbero trovare al suo interno degli esempi validi da seguire oggi, data la sconvolgente attualità nelle tematiche che da quarant’anni a questa parte sono il tema portante dei “balli mascherati” del Bel Paese.

 

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Mirco Calvano

La musica è la mia passione: sul palco dietro una batteria e sotto al palco in un mare sterminato di dischi. Laureato in Letteratura, Musica e Spettacolo e in Editoria e Scrittura a La Sapienza di Roma, passo il mio tempo tra fogli bianchi, gatti e bacchette spezzate. CAPOSERVIZIO MUSICA

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