Growing Up
Giorgia accese l’ipod e si buttò sul letto, le cuffiette nelle orecchie. Intorno a lei il silenzio della sua camera, dentro, la canzone di Nesli.
Crescere, questo le era stato detto. “Non sei più una bambina. Non puoi fare i capricci. Devi renderti conto delle cose. Devi crescere”. Era stata soltanto l’ennesima litigata con i suoi genitori, una cosa stupida, qualcosa di sciocco.
Devi crescere.
A quattordici anni, poi, cosa significa devi crescere? Forse significa ponderare bene le decisioni, non creare problemi, essere comprensivi, dire la cosa giusta al momento giusto. O forse significa soltanto saper affrontare gli ostacoli della vita senza scappare, accettare il dolore, essere più concreti.
Sdraiata sul letto Giorgia non lo sa, tutto le sembra soltanto una grande stronzata: quello non è crescere, non essere adulti, è soltanto un modo di essere, che alcuni hanno a cinque, quindici, venticinque e quarant’anni, altri non avranno mai. Una volta suo fratello maggiore le aveva detto di non crescere assolutamente. Perché crescere è brutto, crescere non è divertente, crescere fa male, molto più che essere bambini. Le aveva detto di restare esattamente così come era, perché ognuno ha i suoi tempi e se si forza il bambino che è in noi si creano guai seri.
“Arriverà quel momento. E allora non potrai farci niente, non potrai tornare indietro. E forse ti andrà bene, ma forse no. E allora aspetta, perché arriverà”.
Alzò il volume delle cuffiette e affondò la faccia nel cuscino, desiderando il ritorno di suo fratello. Sarebbe avvenuto a breve, lo sapeva, e lei avrebbe riavuto il suo alleato, il suo Rifugio dove nascondersi, il suo punto fermo. Aveva sempre peso dalle labbra di suo fratello, l’aveva sempre idolatrato come un Dio, perché lui era grande, era figo, lui fumava, lui era sicuro di sé, lui non si arrabbia per le parole di mamma e papà, perché lui era lui.
E mentre le cuffiette mandano “Mia follia” di Nesli a palla, mentre tiene la faccia impressa sul cuscino, non si accorge del telefono che squilla, non si accorge di sua madre che urla, non si accorge del cane che abbaia… Non si accorge di nulla. Resta lì, fino a quando la canzone non finisce. Allora sente. Allora si alza e va nell’altra stanza. E non fa in tempo a chiedere. Perché sua madre è per terra che piange, strappandosi i capelli, perché il telefono è accanto a lei, perché nell’aria c’è un opprimente senso di male.
Avanza e prende il telefono. Risponde.
Tuo fratello ha avuto un incidente in moto. E’ morto sul colpo.
E resta lì, con il telefono in mano e la bocca chiusa. Le parole le escono senza che siano davvero sue, saluta cordialmente e riaggancia. E allora capisce, cosa vuol dire crescere. Non significa accettare il dolore, non significa non dare problemi, non significa superare gli ostacoli. Significa alzarsi ad un tratto e affrontare le cose in modo diverso da quello che si è sempre fatto, un modo diverso per ognuno, un modo nuovo e ragionato, ma un ragionamento che è anche istinto, perché nasce istintivo, viene da sé, senza essere impiantato a forza da altri.
E suo fratello glielo aveva detto, che il momento sarebbe arrivato prima o poi, senza che lei neanche se ne accorgesse, lui lo sapeva che prima o poi sarebbe accaduto.
Non c’è molto da aggiungere, come commento a questa storia. Era una tematica sulla quale volevo provare a dire la mia, ben consapevole della palude in cui mi stavo immergendo.
Questa è una frase che io stessa ho sentito spesso dire “devi crescere”, e in più di un’occasione, da ragazzina, mi sono detta: “Perfetto, lo faccio. Ma che significa? Che devo fare nello specifico?”
Ecco, la mia non vuole essere una risposta a questo interrogativo, forse semplicemente un “exemplum” esplicativo che consenta di intuire il meccanismo dell’azione, non essa stessa. O forse è soltanto la solita storia che spera di essere d’aiuto a qualcuno, come potere che solo la narrativa possiede.
Martina Monti.