Il risveglio del signor G.
La mattina il signor G. si svegliò e si accorse che non aveva più le gambe.
La vicenda andò più o meno così: pochi minuti prima si era ritrovato in una sgradevole situazione di dormiveglia, con un gran mal di testa, dei forti dolori al tronco e uno strano senso di squilibrio. Aveva aperto gli occhi e sollevato di colpo la coperta. Era in mutande. Niente gambe. All’attaccatura di entrambe le cosce c’erano due lunghissime cicatrici ancora fresche, meglio, due profondi squarci tenuti con un rilevante numero di punti. Si osservò con grande stupore e poi si inquietò moltissimo.
Successivamente ci ripensò e formulò esattamente il seguente interrogativo: “E adesso come affronto codesto imprevisto?”.
Non si raccapezzava. La sera precedente – ricordava con chiarezza – aveva cenato con due uova al tegamino ed una pera, aveva indossato il suo pigiama celeste con i bordi grigi alle maniche e neri ai pantaloni, aveva letto alcune pagine di quel libro che lo appassionava – “Come avere successo nel lavoro e nella vita” – aveva poi programmato la sveglia e spento l’abat-jour sul comodino. Infine, prima di addormentarsi, aveva riflettuto sulla situazione mondiale giudicandola in modo molto severo, ed era precipitato fra le braccia di Morfeo.
“Mi sveglio – pensò – e mi trovo senza gambe, senza pantaloni del pigiama e con le mutande”. Viveva solo e si rese conto che scendere dal letto in quello stato comportava alcune controindicazioni. Di conseguenza prese il cellulare, poggiato a fianco del libro, telefonò all’ospedale soffermandosi sullo specifico frangente e chiedendo un’ambulanza.
“Ma è sicuro che le serve un’ambulanza?”, gli risposero chiedendo. “Sì”, confermò. “Non mi posso più muovere. Come faccio a scendere dal letto senza gambe?”. “Forse lei la fa troppo complicata, ma se la nostra visita è ragione di un suo piacere giungiamo tosto”. “Tosto! Tosto!”, confermò il signor G. e chiuse la comunicazione.
“Una cosa è certa – rifletteva – la mia vita da oggi cambia alquanto. In primis devo preoccuparmi del lavoro. Per andarvi utilizzavo l’auto. Ma la mia auto senza gambe non si può guidare. Di conseguenza devo vendere la mia automobile ed acquistarne una nuova con tutti i comandi al volante. Per seconda cosa devo procurarmi due stampelle che mi consentano di percorrere brevi tratti, limitati tragitti, fugaci itinerari. Per terza cosa devo consultarmi con un ortopedico al fine del conseguimento, nel tempo necessario, di un paio di gambe nuove. Certo, le protesi non saranno come l’originale, ma saranno sempre meglio di permanenti stampelle o, peggio, di una tavola con quattro cuscinetti a sfera”. Squillò il campanello.
“Chi è?”, gridò, “l’Ambulanza!”, rispose una voce analogamente altisonante. “Come faccio ad aprire la porta – aggiunse il signor G. – se sono bloccato a letto senza gambe?”.
“Come facciamo ad entrare nel suo appartamento al fine di prestare assistenza a lei, in quanto senza gambe, se nessuno ci apre la porta?”.
Il signor G. convenne sul fatto che l’interrogativo retorico avanzato dalla voce nascosta dalla porta conteneva un ragionevole fondo di verità. Calcolò il pro e il contro della situazione ed esclamò: “Buttate giù la porta!”.
Non udì risposta alcuna, ma percepì prima strani cigolii, poi sordi tonfi, infine violenti colpi, in conclusione il frastuono di una porta che cedeva rovinando miseramente il suolo.
Pochi secondi dopo comparvero al suo cospetto due infermieri in camice verde molto ma molto chiaro con zoccoli dello stesso colore, ma più scuro.
“E’ lei l’uomo senza gambe?”, interrogarono con rispetto osservando il signor G. in giacca del pigiama e mutande, ma privo di arti inferiori. “Sì!”, rispose seccamente. “Ci scusi” – proseguì il più alto dei due infermieri, in camice verde molto ma molto chiaro– “ma ci spieghi, per cortesia, come mai si ritrova a letto senza pantaloni del pigiama”.
“Ieri sera – rispose con disponibilità – sono andato a dormire con i pantaloni del pigiama e con le gambe. Questa mattina, tutto sparito!”.
“Ma ieri sera – insistette il più basso dei due infermieri – aveva entrambe le gambe, oppure, putacaso, ne aveva una sola?”. “Ma certo che avevo entrambe le gambe!”, affermò il signor G. piccato, alzando un po’ la voce, e aggiungendo: “E’ avvenuto qualcosa. Qualcuno, nottetempo, mi ha asportato le gambe, richiudendo le sanguinanti ferite col punto chirurgico. Osservaste?”. “Osservammo.”, confermò il più alto dei due infermieri. “Ma non tutto, del caso, è limpido. Sicuro, per esempio, che, durante la trascorsa giornata, lei non si sia imbattuto in una qualche evenienza tale da comportare scoraggiamento, delusione, demoralizzazione?”.
Il signor G. si interrogò, poi rispose: “Ma no. Nulla di ciò su cui lei ha argomentato accadde. Ma, quand’anche, cosa c’entra?”. “C’entra, c’entra, caro signore. Le emergenze psicologiche da me riferite sono tali, spesso, come si dice, da far cadere le braccia. Come possiamo escludere in modo aprioristico ed anapodittico che le sia occorso un trauma psichico così ragguardevole da farle cadere le gambe?”.
Di nuovo il signor G., che era persona davvero coscienziosa, intimamente si interpellò. Poi riprese la parola: “Assolutamente no. Per di più, ove pure fosse avvenuto, avrei ritrovato gli arti, ancorché orrendamente separati dal corpo, dentro il letto. Oppure, acclarato che di notte sovente m’agito, per terra. Invece, come potete appurare, a fronte dell’incontrovertibile mutilazione, non c’è l’ombra di gamba né sul giaciglio, né in alcuna zona circonvicina di pavimento”.
“E sia!”, concluse con moderata enfasi il più alto dei due infermieri, “ma ora”, aggiunse, “lei dove pretenderebbe di essere portato?”.
“Io non pretendo; – interloquì il signor G. non condividendo la piega che stava assumendo la conversazione – io gradisco di essere portato in ospedale”. “Ma a qual pro?”, interrogò il più basso dei due infermieri. “Sarebbe meglio, per il suo bene, ed anche per la composta tenuta del suo sistema nervoso, che oggi rimanga in casa, si faccia una ragione dell’accaduto a proposito del quale asserisce di non avere soddisfacenti spiegazioni, ad eccezione di una supposta azione chirurgica notturna ai suoi danni, acciocché domani, all’alba del nuovo giorno, lei sia in grado di affrontare al meglio le sfide a cui ci sottopone la quotidianità degli eventi”.
Effettivamente il signor G. non aveva considerato questo lato del problema, e cominciò a riflettere. Prese la parola, profittando del momentaneo vuoto sonoro, il più alto dei due infermieri: “Sappia che la sua condizione, per quanto limitativa – sia pur fino a un certo punto – della capacità deambulatoria, presenta alcuni lati di indiscutibile valenza positiva. Lei non soffrirà mai più di alcun morbo, tormento, patologia afferente regioni del suo corpo testé assenti. Niente calli e duroni, per esempio. Per sempre scongiurato il pericolo di contrarre il ginocchio della lavandaia. Risolto in via preliminare ogni problema di rottura del femore. Permanente addio a qualsiasi rischio di operazione al menisco. Lei – me lo consenta caro signore – da questo punto di vista può ritenersi un uomo fortunato. Mi permetto di aggiungere, ad abundantiam, che lei trarrà ulteriori vantaggi nelle sue periodiche abluzioni integrali, causa la cospicua diminuzione della superficie epidermica da detergere. Meno tempo, meno sapone, più igiene”.
Il signor G. non era convinto di queste ultime riflessioni di cui era stato portato a conoscenza, ma non fece in tempo ad intervenire che si inserì nella discussione di nuovo il più basso dei due infermieri, in camice verde molto ma molto chiaro: “Tenga altresì nella dovuta considerazione il fatto che la circostanza che la vede protagonista presenta un altro particolare vantaggio: grazie a quella che ritiene legittimamente, ma a mio avviso impropriamente, una menomazione, lei può oggi guardare alla vita in modo diverso, maggiormente libero ed emancipato. Non è più vittima del ricatto mediatico dei consumi, né dell’immagine di un mondo in cieca e frenetica corsa. Lei ora può percorrere la fiorita strada dell’esistenza con un nuovo bagaglio culturale e morale, più critico e, mi consenta, più vero. Le si squadernano davanti, per farla breve, nuove ed inesplorate possibilità”.
Il signor G, a dire il vero, ignorando fino a quel momento tali aspetti della situazione, si ritrasse dubbioso e cogitabondo, e poi, dopo alcuni minuti, chiese: “Ma allora che devo fare?”.
“Vedo che finalmente, caro signore, lei sta affrontando la situazione per quella che è e non attraverso il prisma deformante di una visione riduttiva e nichilista”, sentenziò questa il più alto dei due infermieri. “E’ nel suo interesse dirle che sarebbe d’uopo che lei permanga serenamente a letto, al fine di considerare ogni lato del problema, per così sciogliere, se necessario, gli aspetti ancora oscuri dell’enigma che sembra assillarla. In tal modo operando, troverà in noi alleati preziosi e consiglieri complici e leali. Domattina a quest’ora, lei consenziente, torneremo a trovarla e vedrà che avrà maturato una visione degli accadimenti intercorsi priva di quegli elementi d’ansia e di cupa preoccupazione che sembra attualmente la assillino”.
Il signor G. a quel punto cedette, ma prima che i due si accomiatassero, chiese con un filo di voce: “Ma fino a domani cosa combino?”.
“Signor mio! – disse il più basso dei due, in camice verde molto ma molto chiaro – Ma siamo qua noi per risolverle ogni soverchio problema!”, e gli consegnò nelle mani un videogioco, un orsacchiotto di peluche, un bicchiere colmo d’acqua del rubinetto, una merendina ed un pappagallo per una appropriata evacuazione dell’urina, perché, aggiunsero a proposito, il signore senza gambe potesse nella notte godere di ogni comfort. Dopodiché i due, scavalcando d’un balzo la porta che, scardinata, giaceva sul pavimento, se ne andarono.
Il signor G. poggiò sul letto l’orsacchiotto di peluche, armeggiò a lungo attorno all’apparecchio elettronico scoprendo alfine come metterlo in funzione, si dedicò per tutta la giornata al frivolo passatempo abbandonando così i grevi pensieri che lo avevano angosciato. La sera mangiò la merendina, bevve un po’ d’acqua, utilizzò il pappagallo, spense la luce dell’abat-jour e, sia pur perplesso, si assopì.
La mattina il signor G. si svegliò e si accorse che non aveva più le orecchie.