It, il ritorno di Pennywise tra pochi brividi ma molto cuore
Sono oltre 80 le opere pubblicate in vita da Stephen King, tra i più prolifici nonché celebrati autori dei nostri tempi. All’interno di una produzione letteraria così vasta, risulta inevitabilmente ostico eleggere la migliore. Se volessimo però allargarci quantomeno a una top 5, It sarebbe sicuramente in classifica. Questo romanzo del 1986 (in Italia edito da Sperling & Kupfer) è oggi considerato un classico della letteratura nonché – se non un capolavoro – qualcosa che vi si avvicina molto. Persino l’omonima miniserie tv che ne venne tratta nel 1990, nonostante la sua mediocrità, negli Usa ha un suo piccolo status di cult.
Considerata dunque la materia di partenza, l’annuncio da parte della New Line Cinema di un nuovo adattamento di It, diviso in due parti, ha creato immediatamente delle fibrillanti aspettative. Aspettative che si sono trasformate soprattutto in timori a seguito dei problemi produttivi della pellicola, che ha dovuto affrontare un cambio brusco di regista e protagonista e limitazioni di budget.
Un atteso ritorno
A partire dalla sceneggiatura di Chase Palmer, David Kajganich e Cary Fukunaga, il regista Andy Muschietti (La madre) in questo primo film si concentra sull’infanzia dei protagonisti (nel secondo li vedremo da adulti). Siamo negli anni ‘80 nella città di Derry, nel Maine, dove una spaventosa creatura con le fattezze di un pagliaccio diabolico – che si presenta come Pennywise il clown ballerino – sta facendo strage di bambini e ragazzi. Toccherà a un gruppo di sette giovani emarginati, autoproclamatisi “Club dei perdenti”, fare gruppo nel corso di un’estate indimenticabile, affrontare le proprie paure e cercare di sconfiggere il mostro mutaforma It.
Ciò che bisognerebbe cercare di non fare quando si giudica un film, è paragonarlo all’eventuale corrispondente letterario di partenza. Figuriamoci poi quando ci troviamo di fronte a un romanzo come It, lungo più di 1300 pagine e talmente complesso, denso, stratificato da farlo ritenere da molti pressoché infilmabile. Tuttavia, considerata l’importanza e il seguito del romanzo di cui stiamo parlando, un po’ il confronto risulta davvero inevitabile.
Premesso ciò, c’è da mettersi subito il cuore in pace e accettare che non tutto del romanzo poteva essere trasposto. Ecco che spariscono i vari interludi, la tartaruga, i riferimenti mistici, i rituali. Gli anni ’50 diventano gli anni ’80 con una serie di strizzate d’occhio stile Stranger Things a musica, film, giochi del periodo. La storia di Stephen King viene presa, rielaborata e soprattutto semplificata. Talvolta con successo talvolta meno. Andy Muschietti tira fuori nel complesso un buon film, ben ritmato e con qualche momento emozionante (molto bello ad esempio il prologo). Un film non a caso stra-premiato dagli incassi e che, va ricordato, ha incontrato il benestare dello stesso Stephen King.
Bene ma non benissimo
Un buon film dicevamo, ma non un ottimo film. Perché? Il grande limite di It è che non inquieta. Certo, il Pennywise di Bill Skarsgård è assolutamente efficace, affascinante e orrorifico al tempo stesso. Il giovane attore svedese ha svolto un ottimo lavoro di mimica e voce. Tuttavia, chi conosce bene la storia originale, sa bene come la paura in It non sia solo quella evocata da Pennywise, in quanto Pennywise. E sicuramente non si ferma a jumpscare e accelerazioni varie utilizzati a profusione nel film. Perché It non è propriamente un horror e Pennywise non è un mostro da franchise come la bambola assassina Chucky.
È qualcosa di molto più profondo e non identificabile (non a caso il romanzo esalta la sua natura mutaforma più di quanto faccia il film). Ha a che vedere col terrore recondito nascosto nell’anima, con coloro che dovrebbero proteggerti e invece sono i primi a non capirti affatto, con la bassezza che si nasconde dietro una cittadina che vuol mostrarsi ridente.
It non racconta (solo) di paure infantili e delle difficoltà del crescere, It racconta il Male assoluto. Temi a cui il film di Muschietti accenna certo, ma senza davvero soffermarcisi come dovrebbe. Senza disturbare, senza creare quel senso di incubo permanente che ti rimane addosso. Risulta in questo senso fondamentalmente innocuo. Per non parlare della lotta contro Pennywise che viene fortemente banalizzata.
«Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni»
Eppure, nonostante la mancanza di coraggio, il film riesce comunque a far pulsare un suo cuore che parla allo spettatore. L’aspetto davvero vincente del film di Muschietti risiede infatti nel gruppo dei suoi giovani protagonisti. In questo suo proporsi come pellicola di formazione e amicizia – pur senza quei rituali fondamentali nel libro – It cattura, diverte, ricorda com’è essere un ragazzino, con tutte le sue difficoltà e turbamenti. Ridi con Richie (Finn Wolfhard), ti identifichi con Bill o Ben (Jaeden Lieberher e Jeremy Ray), provi timori insieme a Eddie, Stan o Mike (Jack Dylan Grazer, Wyatt Oleff, Chosen Jacobs), ti innamori di Beverly (Sophia Lillis). Diventi un membro del club dei perdenti anche tu. Sembra più di trovarsi dalle parti di Stand by Me che di It.
La strada tracciata da Muschietti è insomma abbastanza buona, pur non perfetta, e sicuramente il regista ha avuto il merito di avvicinare il grande pubblico a un genere, l’horror, che meriterebbe maggior considerazione anche al botteghino. Speriamo allora che con il secondo capitolo si osi di più e si renda maggiore giustizia a una materia letteraria di prima grandezza e che sa davvero entrarti nelle viscere, come invece a questa pellicola non riesce fino in fondo.
It sarà al cinema dal 19 ottobre con Warner Bros. Pictures.
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