“La buona scuola” di Renzi è un bluff
di Donato Margarito, insegnante di materie letterarie. Ha avuto una lunga esperienza politica con ruolo direzionale provinciale e regionale.

“La buona scuola” di Renzi non è una riforma, ma un provvedimento amministrativo, come tanti altri. In questo, egli asseconda vent’anni di ridondanza legislativa, i cui contenuti sono stati maldestramente spacciati per riforma. Il risultato è quello di un sistema scolastico diventato entropico per un accumulo eccessivo di norme, prive in gran parte di finalità pedagogiche chiare e di motivazioni culturali. Sicché, in esso, sono costrette a convivere forzatamente istanze molto eterogenee e contrastanti che rendono impossibile la comunanza del lavoro educativo e la produzione intellettuale. E’ notorio che la gran parte di queste norme provenga da una cultura aziendalista e dal mito dell’efficientismo imprenditoriale. Alla luce di queste considerazioni, si può dire che sia molto avanzato oramai il processo di trasformazione della scuola da istituzione culturale a struttura organizzativa e la riduzione di ogni specificità di tipo formativo a questioni di natura meramente gestionale: la scuola è dunque trattata come apparato dal legislatore e dalla classe politica. Così anche l’insegnante diventa un addetto e la cultura un servizio per dogmi.
La ministra Giannini (sempre sorridente), in questi giorni è molto impegnata a spiegare che gli assi portanti di questa ennesima riforma sono le immissioni in ruolo dei precari, il rafforzamento dell’autonomia scolastica, l’aumento dei finanziamenti per premiare i docenti meritevoli e il consolidamento dei poteri affidati al dirigente scolastico.

Va notato, nella modalità stessa con cui la cosiddetta riforma è presentata, che viene analizzata la positività di ogni singola proposta, come fosse una cosa in sé, ma da nessuno (Renzi e Giannini compresi) viene spiegato il disegno che contiene ed esprime l’unificazione strategica dell’insieme delle proposte né si dice in che senso esse sono in grado di conseguire effetti migliorativi in un sistema scolastico, afflitto da entropia e gravato da un’accumulazione legislativa e regolamentare disorientante. In sostanza la pesantezza del sistema è tale che anche l’introduzione, in esso, di una spilla produce effetti (desiderati e indesiderati), di cui occorre calcolare la portata, altrimenti è impossibile governare i processi e la dispersione degli esiti programmati è certa.
I DOCENTI PRECARI.
Il provvedimento di immissione in ruolo dei docenti precari è dovuto e tardivo. Peraltro bisogna aggiungere che una parte significativa di essi rimarrà esclusa. Ora, se l’alternativa secca è: precariato o immissione in ruolo, il buon senso ci spinge a preferire il ruolo. Eppure l’operazione sta avvenendo in maniera tale che i precari, per ottenere il ruolo, sono destinati a perdere (oppure a vederla seriamente compromessa) la cosa più importante della loro professionalità, vale a dire l’identità culturale, o meglio l’uso effettivo (in senso didattico) del proprio specialismo disciplinare in un progetto reale di formazione degli alunni.

Di fatto l’albo territoriale questo significa: essere pronti ad andare ovunque per fare il tappabuchi e per un lasso di tempo breve, se non brevissimo. Si tratta di un personale docente costretto a lavorare nella logica della scontestualizzazione permanente e dello sradicamento: quale sintonia si può mai creare con gli alunni in queste condizioni? A costoro si offre il ruolo, ma si toglie la funzione propria che, per esprimersi, ha sempre bisogno dell’appartenenza ad un progetto stabile di obiettivi e di comunità.
L’AUTONOMIA SCOLASTICA.
Quanto all’autonomia scolastica, è sufficiente dire che, dopo tanti anni, essa è ancora un progetto incompiuto e la stessa buona scuola si guarda bene dal pronunciare sul tema parole definitive. Si limita a dire che si va avanti nel processo di rafforzamento dell’autonomia. Non è chiaro a nessuno (nemmeno al governo), quando l’autonomia scolastica sarà davvero compiuta ed effettiva. Il fatto è che nel sistema scolastico sono abbracciati l’autonomia e il dirigismo ed entrambi possono contare sulla forza della norma per sentire le proprie istanze legittimate: purtroppo si tratta di istanze inconciliabili, ma entrambe in funzione e quindi si ostacolano a vicenda creando una paralisi generale. Il verticalismo delle decisioni non è certo debellato, ma qualche spinta innovatrice non si nega a nessuno e, dunque, ben venga un’autonomia, però dimezzata, senza mezzi e con poteri assai limitati e sempre sotto il giogo gerarchico di chi sta più in alto e impone. La stessa figura del preside-sceriffo contrasta con il concetto dell’autonomia che presuppone una comunità in cui s’interagisce, compreso il dirigente. Attualmente non si può certo dire che la preminenza sia dell’autonomia rispetto al dirigismo, ma proprio il contrario. L’organizzazione della scuola italiana non esiste senza il decisionismo ministeriale. Il governo non ha aggiunto un bel niente su questo: ha solo confermato lo status quo.
L’ATTRIBUZIONE DEGLI INCARICHI.
Chi opera concretamente nella scuola sa benissimo che l’attribuzione di incarichi importanti ai docenti non è, nella stragrande maggioranza dei casi, il frutto di titoli culturali e professionali incontrovertibili (essi semmai sono causa di esclusione), ma il risultato di una selezione altamente discrezionale, operata dal dirigente nella logica della cooptazione personale e delle affinità psico-relazionali. Il merito, di fatto, è il grande assente nell’assunzione di tali decisioni: l’importante è accettare ciecamente la gerarchia e la pianificazione senza domandare e senza riflettere.
Non nego che ci possano essere eccezioni a questo quadro così deprimente, ma le situazioni concrete questo ci dicono. Sono i docenti meglio “piazzati” quelli che ricoprono, per decenni, cariche che diventano inamovibili (infatti la turnazione non esiste) e si trasformano, col tempo, in vere e proprie cristallizzazioni di potere. In queste procedure, proprio il merito è quello che viene scartato a priori dal momento che non esistono criteri per pilotare le scelte e l’intuito personae regna sovrano. I soldi in più andranno ai meglio “piazzati”. Gli altri docenti avranno il marchio infamante di non essere meritevoli e, per giunta, una busta paga più leggera. La collegialità delle scelte, in questo ambito, non esiste più da anni ormai e la valutazione dell’operato del team è pura routine. Per questo le consuetudini, anche quelle peggiori o solo mediocri, diventano sistema e si auto-organizzano in tradizioni persino autorevoli.
IL PRESIDE-SCERIFFO.

E veniamo al preside-sceriffo. Non bisogna pensare che questa figura sia venuta fuori dal nulla. E’ sufficiente un piccolo sguardo archeologico per scoprire i suoi antenati più prossimi che vanno dal preside-manager al preside-leader. Anche su tale figura, però, si eleva sovrastante una giuridificazione eccessiva che, da un lato, produce una normazione secondo la tendenza prima illustrata (cioè il potenziamento dei suoi poteri) e, dall’altro, una normazione di segno contrastante che predica l’importanza della collegialità, che indica nella costruzione collettiva delle decisioni una buona prassi da privilegiare, che suggerisce il massimo coinvolgimento degli organismi e delle componenti che costituiscono la comunità scolastica. Insomma il sistema è fatto di accentramento e di decentramento.
Il risultato, anche qui, genera lentezze e anche incomprensioni che, quasi sempre, vengono rimosse da intese formalistiche. In realtà siamo nel campo della metafora per connotare una funzione apicale evidentemente sfuggente. Manager, leader e sceriffo lo sono in eguale misura. Tuttavia tutte queste metafore, piuttosto che indicare una realtà (che infatti non c’è), vogliono configurare un’aspirazione e quindi contengono una teleologia che purtroppo tarda a compiersi e si rimanda nel tempo in merito alla fisionomia di questa importante figura. Il fatto è che l’indugio (e le indecisioni, altro che rafforzamento dei poteri!) non ferma affatto la macchina. La scuola è una macchina che, in qualche modo, deve muoversi e lo fa, indipendentemente dal fatto se il suo funzionamento coincide o no con le aspettative metaforiche e teleologiche del legislatore.
Se questi orizzonti non trovano riscontri effettivi (e così mi sembra essere), quello che succede, nel tran-tran quotidiano della scuola, non è altro che l’affermazione di una figura di dirigente che espleta la sua azione tra il domandare e il demandare. Domanda ai ranghi gerarchicamente superiori cosa deve fare e come deve farlo, chiede e ottiene i chiarimenti dovuti su circolari, sentenze, provvedimenti e scadenze e, una volta ottenuto il quadro degli intenti e delle procedure corrette, passa alla seconda fase, che è quella del demandare i compiti attuativi ai collaboratori, alle funzioni strumentali e ad altre specifiche figure investite di attribuzioni. Mi chiedo che relazione abbia tutto questo con l’autonomia scolastica e con il decisionismo del dirigente. A mio avviso poco. Forse niente.