La casa della risata

L’autrice scrive sotto pseudonimo

 

E allora c’hanno chiesto di non pensare. Poi hanno preteso che non avessimo più istinti, quello però era più difficile, perché un animale arrabbiato e affamato non si ferma a comando.

Si ferma quando è sazio.

 

Il nostro luogo era cambiato.

La normalità era la serietà e la povertà anche d’animo. Nessuno sorrideva più perché non ce n’era motivo.

Era cambiato il mondo con le ultime campagne elettorali e le relative elezioni.

Prima la risata era tollerata anche se c’era crisi, poi la situazione era degenerata e se ridevi non ti arrestavano, ma ti guardavano male.

Non c’era niente da ridere e gli sguardi altrui uccidevano.

Le vedove mendicavano attenzioni, i ragazzi abusavano d’irresponsabilità e il tutto avveniva sotto gli occhi ciechi del Potere, troppo intenti a giocare a scacchi, dove ogni pedone a terra equivaleva ad un uomo che usciva da casa con i piedi davanti e saliva sui veicoli con l’assoluta precedenza.

Ai funerali non versavamo più lacrime, anzi ci domandavamo chi sarebbe stato il prossimo.

l43-napoli-poveri-130321214401_mediumLe chiese impoverivano, le offerte non c’erano più e i becchini iniziavano a vedere la loro attività ridimensionata dallo Stato, che li aveva obbligati a ridurre notevolmente i costi per permettere alle famiglie di onorare i loro cari.

Lo Stato non lo aveva ringraziato nessuno.

In sei mesi avevo assistito a venticinque funerali.

Sei erano morti per via della mala sanità.

Undici – come un’intera squadra del nostro sport nazionale – s’erano suicidati.

Tre erano morti di cancro. Non avevano soldi per curarsi. O per prevenirlo. O semplicemente per controllarsi.

Due mie amiche erano state stuprate. Infine uccise.

Mamma, Papà e mio fratello morti per mano di un ubriaco.

E per chi abitava nei sobborghi non c’era giustizia, non c’erano cordogli e nemmeno un politico ci stringeva la mano, con finti sorrisi, dispiaciuto.

Andava bene. Non avevamo bisogno di loro.

Per noi, che avevamo l’intonaco che crollava dai muri e il muschio che cresceva, con le macchie della muffa che si allargavano giorno dopo giorno, non c’erano interviste e giornalisti, perché nei sobborghi era troppo vera la povertà.

Le giornate non avevano più colori.

I bambini tornavano da scuola a metà mattinata, perché gli insegnanti non lavoravano senza uno stipendio.

La fila alla mensa si era allungata fino al punto di rottura, quello in cui la gente iniziava a diminuire per via della Signora che veniva chiamata o arrivava nella notte, portando via pezzi di coda.

La situazione era precipitata e in tutto quel caos, dove le elezioni s’avvicinavano, io avevo iniziato a ridere.

E non riuscivo a smettere.

Ridevo della mia condizione di disadattata, della mia condizione di non essere umano, priva di pensiero e istinto.

Anzi no.

L’istinto non me l’avevano tolto. Io ridevo perché era il mio corpo a chiedermelo.

E lo facevo di gusto, specie quando venivamo appena nominati come quelli d’aiutare, non appena qualcuno fosse salito al governo, in una delle poche interviste nelle quali venivamo nominati.

Qualcuno ci credeva ma io ridevo. Di bugie ne avevo sentite fin troppe.701913-villabiancalakecomo-001

Poi erano arrivati i risultati delle elezioni, i mesi erano passati e nulla era cambiato.

Quella che avevano spacciato per crisi passeggera, in realtà ci stava divorando.

Io ormai giravo a piedi nudi, con i capelli lunghi e i vestiti di tre taglie più grandi. Non mi davano neanche più l’elemosina perché ridevo e credevano fossi felice. E non avevano soldi da donare.

Tutto quello che accadeva nel nostro paese era ormai lontano dalla civiltà e vivere lì era ormai quasi una punizione.

L’unico poliziotto c’era perché aveva rubato dei documenti privati e per non congedarlo l’avevano mandato in punizione, con la divisa invernale anche d’estate.

Poi una mattina, un furgoncino si era fermato davanti la caserma/casa del poliziotto e aveva lasciato dei documenti.

Si sapeva.

Dopo pochi mesi, mentre io subivo l’irresponsabilità dei ragazzi e gli istinti degli affamati, senza sentire più nulla, un palazzo crebbe e in breve fu aperto.

E alla fine arrivò l’ultimo furgoncino: consegno delle casse e un’insegna.

Casa della Risata.

Sembrava il nome di un manicomio, ma era un bel nome ed era l’unica struttura nuova in quel paese.

Piano piano vi entrarono diverse persone, poi invitarono anche me.

Avevo appena finito di ridere, dopo l’ennesima imboscata, alla quale non mi ero opposta, quando lessi l’invito e decisi di entrare.

In poco tempo tutto si fece bianco.

beautiful_woman_white_dress-1680x1050Avevo dei vestiti nuovi e tutti sorridevano insieme a me. Entrai nella mia stanza, tutta bianca e immacolata.

Dalle finestre si vedeva il piccolo giardino dov’era parcheggiato il camioncino con le altre casse.

Forse ero pazza ma non ero stupida.

Sapevo che tutto lì era un’illusione, un’allucinazione e che eravamo tutti sotto l’effetto di droghe.

Sapevo che quello era l’intervento del mio Stato ma l’accettavo senza ribellarmi. Io lì – in quel manicomio – sorridevo e vedevo tutto bello.

Per una pazza come me quello era il Paradiso, l’inferno l’avevo lasciato fuori, in eredità al mondo e a tutti i miei irresponsabili.

Ci danno un po’ di cibo e tante pillole.

Va bene così, per questo ho deciso di viverci ancora.

LUCIA

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