L’altra persona

allo-specchioSimone fece scoppiare la terza bolla di saliva. Stupiva molti come un gioco stupido e infantile come quello potesse divertire il piccolo Rinaldi, eppure era così. Non solo di fronte alle vetrine, ma spesso sua madre lo trovava davanti allo specchio del bagno intento a rimirare la lucida e sottile patina che univa le sue labbra. E dai sotto a rimproverarlo, a scappellotti sull’irsuta testa castana, a occhiatacce glaciali accompagnate da un rombante “Simone!”.

Ma era più forte di lui, calamitato dall’effimera fugacità di quel momento di equilibrio perfetto, in cui una cosa tanto fragile riusciva a esistere e resistere, il ragazzino tornava, immancabilmente, a fissare il suo riflesso con le labbra schiuse e atteggiate a pesce, che tanto gli davano un’aria bietolona che poco si adattava alla sua immagine di piccolo genio.

Simone Rinaldi, infatti, questo era: un piccolo fenomeno della natura. A cinque anni aveva imparato a suonare Beethoven meglio del musicista stesso alla medesima età, a sette sapeva recitare Shakespeare a memoria, a otto risolveva problemi di trigonometria, a nove parlava quattro lingue… E a dieci faceva bolle di saliva.

Anche in quel momento, seduto con lo sguardo rivolto oltre il finestrino della macchina, osservava correre il mondo intorno a lui, oltre lui… E ciò che c’era già non c’era più, ciò che aveva visto era stato talmente veloce che neppure era certo che fosse vero, e non fosse solo per lui e in sua funzione, un effimero riflesso di luci soffuse. C’era altro oltre lui? A volte questo si celava dietro quegli occhi grandi di bambino, dietro quel nocciola troppo serioso che inquietava tanto anche gli adulti. Non era un moto di superbia il suo, non che quell’oltre lui fosse relativo alla sua persona in quanto genio, ma semplicemente in quanto persona. E per l’altro, quell’altro generico dall’altra parte, c’era altro oltre quell’altra altera altrui altezza, che dalla sua posizione di diverse spanne più elevata –perché questa non era una virtù di quel cervello con le gambe: l’altezza. Era, difatti, un “nano”- lo osservava come un qualche strano fenomeno, come se esistesse davvero. O esisteva solo in sua funzione, o era l’altro a esistere solo grazie a lui?

E quando si trovava in una macchina veloce e vedeva quel fascio confuso di colore e luccichii passare – era il mondo che passava o lui nella macchina? – o stava aldilà dell’oblò di un aereo e osservava quei puntini sotto di lui, Simone rifletteva su tutte queste cose. Simone, poi. Perché Simone? Non gli piaceva quel nome. Avrebbe voluto chiamarsi Ichigo, come il protagonista del fumetto che leggeva suo fratello maggiore, oppure Sherlock. O non chiamarsi. Perché doveva avere un nome? A che serviva? Il mondo era pieno di Simoni Rinaldi, qual era la grande importanza di associare a una parola di senso compiuto il suo volto? Restava comunque lui. Anche qualora esistesse in funzione di quell’Altro. Quindi, da qualsiasi punto di vista si vedesse, lui esisteva in funzione di quell’etichetta “Simone Rinaldi”, oltretutto indipendente da lui.

Ma ogni volta che cominciava questa disquisizione giungeva a un punto morto, di solito in concomitanza con la frenata della macchina. E quasi tirava un sospiro di sollievo.310-Donati-Gianluca-Lo-Specchio1

Le bolle di saliva aveva preso a farle per un motivo preciso. Le aveva viste fare a quell’altro, quello dall’altro lato di quello specchio trasparente che è la finestra.

Capitò, infatti, che nella casa proprio di fronte alla sua, si trasferisse una famigliola bislacca assai, dalla quale l’onorevole famiglia Rinaldi cercava in tutti i modi di tenersi alla larga. Il capofamiglia era l’inverso di quell’austero avvocato di suo padre, con quei capelli lunghi e le felpone larghe, il sigaraccio in bocca e la barba incolta. Che lavoro facesse non lo sapeva nessuno, ma sua madre era sicura fosse qualcosa di losco. La moglie, poi, di questo tale Taldeitali – come fu presto chiamato da Simone che non ne sapeva il nome – aveva un’aria stralunata: gli acquosi occhi azzurri sembravano vedere chissà che cosa, e si muoveva sempre con un andamento saltellante, neppure fosse una vispa Teresa. Ma la peggiore era la figlia, dapprima “ragazza leggera”, con quelle gambe sempre di fuori e il trucco sugli occhi, poi vera e propria sciacquetta, dopo che s’era messa con suo fratello maggiore – sì, quello dell’Ichigo – o meglio era lui che s’era messo con lei, visto quanto l’aveva tampinata. Da ultimo veniva il più piccolo, un ragazzino dell’età di Simone, che certo giusto l’età con lui poteva aver in comune, con quello sguardo inebetito e tonto, e la mania di fare bolle di saliva.

La camera del ragazzino era proprio di fronte a quella di Simone e guarda che ti riguarda – si sa che la curiosità è dei bambini – Simone ci si trova proprio faccia a faccia. E subito ha una scossa, un sobbalzo. Il ragazzino è lui. Un altro lui, ma sempre lui. Il viso è lo stesso, anche se gli occhi della controparte sono azzurri e i capelli neri come il carbone, ma i lineamenti, le labbra, il fisico… E’ lui alterato con photoshop. E di fronte a questa rivelazione Simone ha come un capogiro e si chiede come può non essersene accorto nessuno, come posso dirli diversi. Gli sembra di aver scoperto uno dei più grandi misteri dell’uomo, ma quello che si mette a fare, con lo sguardo inebetito? Bolle di saliva. E poi gli sorride, uno di quei sorrisi sinceri ma senza senso che solo i bambini possono e sanno fare e che lui, nella sua seriosità di bambino-adulto, non ha mai fatto. Poi quello scompare, chiamato dalla madre, e Simone continua a fissare solo l’altro vero Simone rimasto, quel cupo riflesso che rimanda il vetro della finestra. C’era o era l’Olimpia di Nathaniel, ciò che aveva veduto? Simone prese a scendere le scale di casa molto lentamente, rimuginando con la sua celebre testina su ciò che i suoi ingannevoli occhi coglievano. Da tempo aveva capito, infatti, che la vista è la più infida delle ingannatrici, e che non vede in realtà un bel niente.

– “Mamma, il figlio dei vicini è in verità mio gemello biologico, da voi abbandonato alla nascita?”, chiese con la massima serietà con cui era solito rivolgersi ai genitori. Suo padre si strozzò con il vino e sua madre si scottò con la pentola, mentre suo fratello alzò gli occhi al cielo, mormorando un “Ci risiamo”. A discapito del ragazzo si può dire quanto possa essere difficile per un diciottenne crescere all’ombra di un geniale fratello di otto anni più giovane che gli spiegava matematica.

272606– “Simone, stai recitando una nuova tragedia?”, chiese suo padre con quel tono che solo un avvocato può avere.

– “Solo quella di tutti giorni, la mia vita, cioè quella di quel che conoscete come Simone Rinaldi”. I familiari erano abituati a quel modo di parlare e non vi facevano più caso, tranne quando, forma a parte, diceva qualcosa di strampalato.

– “Quindi, ci stai seriamente chiedendo se il figlio dei nuovi vicini è tuo fratello?”. Il tono della madre tradiva stupore misto a offesa.

Il ragazzino annuì e nello stesso tempo il padre si alzò (con tutta la calma del mondo), si recò nella camera da letto sua e della moglie, scartabellò nel mobile dei documenti e tornò con dei fascicoli.

– “To’, eccoti tutta la documentazione della famiglia e dei suoi membri, dai tuoi nonni a te”. Sapeva che il figlio avrebbe creduto solo a delle prove, e non per mancanza di fiducia nei genitori.

 

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Martina Monti

Studentessa di Editoria e Scrittura presso la Sapienza di Roma. COLLABORATRICE SEZIONE CULTURA.

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