Referendum 17 aprile: quanto ci costa trivellare?

Un acceso dibattito è in corso in questi giorni sulla spinosa questione dell’opportunità di continuare a trivellare allo scopo di proseguire nell’estrazione petrolifera dai nostri mari. Non molti sanno, però, che il prossimo 17 aprile sarà possibile per i cittadini italiani esprimere la propria opinione, vincolante per il Governo, attraverso un referendum che sarà incentrato proprio sul tema delle piattaforme petrolifere e a gas che operano nelle nostre acque.
In sostanza, la consultazione referendaria interviene su alcune norme del decreto Monti sulle liberalizzazioni (ovvero il Decreto Legge testo coordinato 24 gennaio 2012 n° 1 della Gazzetta Ufficiale del 24 marzo 2012) e in particolare quelle contenute nell’articolo 35 che estendono il divieto di trivellazione in mare alle 12 miglia (19 chilometri). Il referendum sarà di tipo abrogativo, ossia i cittadini dovranno rispondere ad una domanda la cui tematica in breve è: «Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?». Se vincerà il Sì verrà abrogato l’articolo 6 comma 17 del codice dell’ambiente, dove si prevede che le trivellazioni continuino fino a quando il giacimento lo consente, ossia praticamente ad esaurimento.
Come immaginabile, una questione spinosa come questa ha sollevato una serie di commenti ed opinioni sulla eticità e sulla reale utilità dell’estrazione di gas e petrolio proprio nelle acque del nostro territorio, ed molti, tra associazioni ed enti ambientalisti sono preoccupati sulla eticità di una scelta che non punti alla sostenibilità ambientale dei nostri mari, ma si focalizzi sulla profittabilità economica dell’avere in casa una maggiore fonte di estrazione dei preziosi idrocarburi. Specie se, osservando meglio il petrolio risulta essere non più così tanto ambito, anche alla luce dei drastici cali della domanda mondiale di petrolio dovuti alla crisi finanziaria globale, che sta ancora tenendo sotto scacco i mercati europei e non e che hanno terribilmente assottigliato le riserve valutarie di colossi della produzione di gas e greggio (come per la Russia) mettendone in pesante sofferenza le economie. La domanda più semplice da fare, a questo punto è: quanto conviene davvero continuare ad estrarre petrolio dai nostri mari? E quali sono termini della possibile ricaduta sulla economia del turismo della penisola? Verso quale delle due ipotesi tende il saldo economico? In breve, non si tratta di una questione etica, ma più che mai un ragionamento in chiave di economia.

Abbiamo posto queste domande a una delle associazioni che, tra le altre, è apertamente schierata nel referendum contro il proseguire delle trivellazioni: Greenpeace. «Chiariamo una cosa – puntualizza subito Patrizio Lepore, coordinatore del gruppo locale di Napoli dell’organizzazione ambientalista – Matteo Renzi ha dichiarato che il Referendum No Triv metterebbe a rischio migliaia di posti di lavoro negli stabilimenti dove già sono in corso estrazioni da giacimenti di gas o petrolio off-shore. Il voto, al contrario, riguarda le nuove trivellazioni in mare e non mette – né potrebbe mettere – in discussione i cantieri petroliferi in corso e, quindi, non incide negativamente sull’occupazione nel settore».
GREGGIO E’ GUADAGNO?
Ma di quanto petrolio stiamo parlando? «Teniamo a sottolineare – spiega Lepore – che le riserve certe di petrolio sotto i nostri fondali equivalgono a meno di due mesi dei consumi nazionali, quelle di gas a circa sei mesi. Se fossimo in grado di estrarre in un sol colpo tutto l’oro nero che c’è sotto i nostri mari, basterebbe al Paese per 7-8 settimane che, tra l’altro, non verrebbe mai estratto in un sol colpo: si parla di concessioni che durerebbero almeno un ventennio».
A quanto pare anche in termini di ricavi netti per le casse dello Stato un’incremento delle trivellazioni, in seguito alla vittoria del “no” al referendum, non avrebbe molto senso. Secondo l’esponente di Greenpeace, infatti «il greggio ed il gas risultato delle trivellazioni sarebbe una proprietà privata, venduta dalle compagnie che lo estrarrebbero, pagando royalties solo del 7 per cento del valore di quanto viene estratto, inaccettabilmente basse considerando che negli altri Paesi si va dal 25 per cento della Guinea all’80 per cento di Norvegia e Russia. Basti pensare – aggiunge – che l’anno scorso è stata estratta in Italia una quantità di idrocarburi per un valore commerciale di 7 miliardi di euro. Di questi, solo 420 milioni sono stati versati dalle compagnie petrolifere alle casse pubbliche come royalties, da cui lo stato ha ricavato 79 milioni di euro e le regioni circa 190».
RISORSA TURISMO.

L’altra faccia della medaglia è sempre da osservare in chiave economica, ossia quanto avremmo da guadagnarci come sistema-Paese da una ulteriore aggiunta o prosecuzione di trivellazioni in mare per l’estrazione di idrocarburi, in settori chiave per il nostro Paese, come il turismo. L’industria turismo, infatti, è uno dei settori economici più redditizi d’Italia, come continua a illustrarci Lepore: «Il nostro Paese è stato, nel 2015, la quinta meta turistica del mondo, con 50 milioni di turisti internazionali venuti a visitare le nostre coste, a testimonianza che stiamo vivendo, a dispetto di una crisi economica pluriennale, anni di estrema espansione turistica a livello nazionale, ma anche sul piano globale. Il turismo vale il 10,1 per cento del PIL in Italia, oltre che il 12 per cento dei posti di lavoro. Il patrimonio paesaggistico, storico e artistico del nostro Paese – prosegue – è prima di tutto una fonte di reddito indiscutibilmente superiore a quella riconducibile alla estrazione e vendita di idrocarburi».
GLI STATI UNITI E IL ‘CASO’ BASILICATA.
Un fatto che viene corroborato anche da ulteriori dati statistici: «Uno studio del South Environmental Law Center dimostra che, in sostanza trivelle e turismo non possono coesistere. I loro dati prendono ad esempio le comunità della Louisiana, del Texas ed Alabama che si affacciano sul golfo del Messico. Queste comunità – racconta ancora Lepore – beneficiano delle entrate generate dal turismo in modo ridotto praticamente della metà rispetto, ad esempio, delle stesse comunità però dislocate in località differenti sprovviste di trivelle a largo, come la Florida. Volendo dare un’idea più precisa facendo riferimento a parametri demografici, le contee senza infrastrutture petrolifere negli Stati Uniti rendono in media 1,300 dollari pro capite l’anno, tutti proventi da turismo. In quelle dove invece sono presenti impianti per la trivellazione a largo, le revenues si riducono fino a risultare esattamente la metà, solo 682 dollari pro capite».
Riportando il discorso nel Belpaese, ma tenendo saldo il ragionamento di fondo, bisogna ricordarsi che «in Italia – ricorda sempre il rappresentante campano dell’ong ambientalista – esiste una regione che è già stata immolata all’industria petrolifera: la Basilicata, la quale fornisce circa il 7% del fabbisogno nazionale di greggio. Un fatto che non sembra aver portato particolari benefici ai lucani, dato che, secondo recenti dati Istat, la Basilicata è la regione più povera d’Italia. Infatti, confrontando i dati riferiti alla regione lucana rispetto alla media nazionale delle famiglie al di sotto della soglia di povertà, osserviamo che la Basilicata si attesta a più del doppio di tale valore medio».
ENERGIA? E’ NELLE RINNOVABILI.

Rimane da sciogliere il nodo sulla questione energetica. Su cosa concentrarsi per aumentare l’autonomia dalle importazioni di greggio per il nostro Paese, dunque? Secondo Lepore la soluzione è nelle energie rinnovabili: «Impiegano in tutto il mondo 7,7 milioni di persone, il 18 per cento in più rispetto ai 6,5 milioni di un anno fa, il che testimonia un mercato in espansione». Una situazione che viene rilevata anche da istituzioni internazionali come l’International Renewable Energy Agency (IRENA), che spiega in un rapporto come l’aumento dei posti di lavoro nel settore sia trainato in parte dal calo dei prezzi delle tecnologie delle rinnovabili, che creano più occupazione nelle attività di installazione e manutenzione di impianti. «Secondo questi dati – conclude quindi il giovane attivista dell’organizzazione – raddoppiando la quota di rinnovabili nel mix energetico globale entro il 2030, le rinnovabili impiegherebbero oltre 16 milioni di lavoratori nel mondo».
SE QUESTO ARTICOLO TI E’ PIACIUTO, SOSTIENI WILD ITALY CON UNA DONAZIONE!