Renzi e la fine del doroteismo
di Umberto Croppi *
Tutte le formule usate per definire fasi e modi della politica italiana appaiono da tempo abusati. È una pretesa senza ormai fondamento quella che vorrebbe catalogare le “repubbliche” che si sono succedute nel nostro dopoguerra (prima, seconda, terza?): gli elementi di continuità si mischiano con apparenti fenomeni innovativi, in maniera tale da rendere indecifrabili le linee evolutive o involutive che ne percorrono i cicli.
Nella parabola che ha portato Mattarella al colle più alto, è racchiusa l’intera metafora di questo tempo confuso. Fu infatti l’esponente democristiano ad inventare l’espediente che, correggendo il sistema di voto uninominale invocato dagli Italiani, introdusse quel meccanismo che avrebbe dovuto salvare l’eterno partito di maggioranza relativa. Nonostante questo la Dc fu spazzata via dal risultato elettorale. Tuttavia i suoi quadri, i suoi gruppi di interesse, la sua cultura di governo furono traghettate dalle nuove formazioni, che credettero di doversi contendereuno spazio elettorale che non esisteva più attraverso il salvataggio dei suoi leader e finirono, invece, per esserne colonizzati.
C’è però una cosa che più di ogni altra ha costituito un ostacolo al vero cambiamento. Tutte le nuove formazioni sono sembrate incapaci di esercitare il mandato ricevuto, quasi paralizzate da impedimenti impalpabili, reti invisibili: l’alibi incomprensibile “non ce lo hanno fatto fare”, “ce lo hanno impedito”. È quella cultura, quella malattia a suo tempo nota come doroteismo, che ha pervaso partiti della cosiddetta nuova repubblica.
Quel procedere lento, guardingo, con cento camere di compensazione, con la dissimulazione, la ricerca di ogni possibile compromesso preventivo, le cortine fumogene. Un apparente senso di responsabilità che è invece totale deresponsabilizzazione, orrore per ogni decisione, costante mancanza di chiarezza.
Ora, pensare che sia in corso una vera rivoluzione sarebbe esagerato e, come abbiamo appena visto, gli elementi di continuità prevalgono spesso sulle rotture. Né ci azzardiamo a formulare previsioni per l’efficacia futura dell’azione di governo.
Però almeno questo Matteo Renzi lo ha dimostrato e, per chi lo ha seguito fino dalla sua prima esperienza di presidente della Provincia di Firenze, sa che è il suo tratto distintivo. Cioè la consapevolezza che si può definire un obiettivo, dichiararlo e perseguirlo, senza che questo comporti i rischi sempre usati come spaventapasseri dai cultori della prudenza, del compromesso. Insomma abbiamo visto, anche nella circostanza attuale, che ciò che veniva dato come impossibile, può invece accadere senza nessuna difficoltà. Che la politica non deve necessariamente avere regole diverse da quelle che vigono tra le persone normali, nel mondo del reale.
Sono esempi lampanti, si decide e si fa. Se le decisioni sono sbagliate ce lo diranno il tempo e i risultati, ma almeno si saprà a chi darne la paternità.
Non vorrei neanch’io usare termini epocali però se dovessi dare un giudizio sull’attuale fase della politica italiana, non mi soffermerei tanto sulle singole scelte quanto su questo aspetto metodologico: è forse finito il doroteismo o, quantomeno, c’è la prova che se ne può fare a meno.
* consigliere di Federculture