#RomaCinemaFest: la recensione di Room
Arriva dall’Irlanda uno dei candidati principali al “Premio del Pubblico BNL” della decima Festa del Cinema di Roma. Si tratta di Room, l’ultima opera del virtuoso regista di Dublino Lenny Abrahamson (What Richard did, Frank), ispirata al romanzo del 2010 “Stanza, letto, armadio, specchio” di Emma Donoghue – la scrittrice nel film è sceneggiatrice e produttrice. La pellicola, già presentata al “Toronto International Film Festival” con ottimi successi, è una delle sorprese più brillanti della prima parte della kermesse romana ed è presente nella Selezione Ufficiale. La trama del dramma, sia del film che, naturalmente, del libro, riprende liberamente il contesto di uno dei casi di cronaca nera più crudi della storia: la tragica vicenda dell’austriaca Elizabeth Fritzl, segregata per 24 anni in un bunker dal padre. Le riprese si sono svolte in poco più di un mese in Canada.
SINOSSI.
Jack (il piccolo Jacob Tremblay) è un bambino di cinque anni che vive insieme alla madre Joy (Brie Larson) all’interno di una piccola stanza, chiamata da lui semplicemente “stanza” (Room, appunto). Per Jack quelle quattro mura corrispondono ai confini del mondo, non è mai uscito da lì e non conosce cosa c’è dall’altra parte della porta. L’unica immagine che ha dell’esterno arriva da un piccolo lucernario, dal quale si scorge solamente il cielo. L’unica verità che Jack sa è quella di essere nato e vissuto per tutta la vita in quella stanza.
La madre gli ha mentito per proteggerlo. Joy era stata rapita sette anni prima da un uomo, chiamato Old Nick (Sean Bridgers), che l’aveva violentata e segregata in una capanna del suo giardino; quella capanna è “stanza”. La verità, però, si può celare fino a quando la disperazione non prende il sopravvento. Ed è così che Joy e Jack escogitano il piano giusto per fuggire.
Ma la vita, dopo un trauma del genere, non può essere in nessun caso la stessa; per Jack il mondo esterno è una turbolenta nuova nascita, per Joy gli anni persi saranno una ferita quasi incolmabile.
GLI EFFETTI DI ROOM: IL TRAUMA, LA NASCITA E LA VITA.
La storia di Room è una di quelle che lascia il segno; la segregazione, la violenza, la fuga, il rapporto madre-figlio e i postumi del trauma sono tutti elementi che portano lo spettatore a riflettere su ciò che accade nella narrazione filmica. La commozione è inevitabile, soprattutto nella seconda parte, quando la vita dei due protagonisti deve, in qualche modo, rinascere dalle ceneri di quella precedente. In quest’ottica è da applausi il giovanissimo Jacob Tremblay, che, nella parte del piccolo Jack, trasmette una grande carica emotiva, riuscendo a commuovere e, allo stesso tempo, a rendere reale ogni stadio dei traumi che vive il protagonista.
L’importanza della stanza – come si evince dal titolo – è centrale nel film: in quelle mura si vivono i giorni felici dell’infanzia di Jack, fuori da quelle mura c’è soprattutto spaesamento. La porta di “stanza” è lo spartiacque, sia nello svolgimento che nella storia vera e propria. Con ciò abbiamo i toni della commedia, per quanto irreale, nella primissima parte, i contorni di un thriller, con la suspense che merita, durante i tentativi di fuga, e infine un dramma a tutti gli effetti, con gli sviluppi di una rinascita problematica. In tutto questo spiccano madre e figlio, Joy e Jack, due personaggi forti che fanno breccia nel cuore e nelle menti dello spettatore. Room lascia indubbiamente il segno.
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