Sull’orlo del baratro

L’Italia è in crisi. Peggio. L’Italia sta affondando (neanche troppo lentamente) nel suo debito pubblico e nella sua mancanza di credibilità. Pure Tremonti lo sa, non è tutta colpa della speculazione se all’improvviso ci siamo ritrovati con la borsa in perdita, con dei titoli di Stato destinati a valere come carta straccia e con un’incapacità latente di incidere nell’andamento dell’economia. E’ ingenuo immaginarsi “la speculazione” come un gruppo di omini malvagi che, tutt’a un tratto, prendono di mira un Paese. Gli speculatori “attaccano” le economie dei paesi deboli, rastrellando quante più azioni “low-cost” possibile quando le loro economie arrancano. Per quale motivo, dunque, siamo “sotto attacco”? Non si sa, non uno che si sia abbassato a spiegarcelo. Forse la questione è un po’ più complicata di quello che sembra.
La risposta alla domanda di prima è una sola. Noi, la terza economia dell’Unione Europea, non siamo credibili. E se non siamo affidabili in campo economico, se non diamo segnali forti, non possiamo sperare che la borsatorni a salire e il PIL a crescere. E perché non siamo credibili? I motivi, tralasciando inutili semplicismi, non sono solo legati all’instabilità del nostro Governo. Uno speculatore attacca dove le politiche economiche sono fragili o mal definite, non dove un Governo è instabile. Tanto è vero che in Belgio, dove sono da un anno senza Governo, l’economia gira, perché la loro politica economica funziona. Invece noi in economia non siamo affidabili. Non siamo capaci di gestire il debito pubblico, che è diventato incontrollabile. Il fatto che uno Stato si indebiti non è un principio sbagliato: può aiutare un Paese a dare un colpo di reni e a ripartire dopo una crisi. Il problema si presenta quando la situazione diventa ingestibile, quando il deficit diventa troppo alto e i tassi di interesse crescono troppo, quando fare manovre finanziarie in debito diventa normale. In poche parole, quando si è nelle condizioni dell’Italia. Qui si vede la distanza tra un Paese civile come la Germania e noi: in Germania hanno il terzo debito pubblico del mondo (è stato rivalutato di recente), ma hanno capito che dovranno ridurlo e che non si potranno permettere più di fare spesa in deficit (spendere soldi che non si hanno). E le misure del Ministro tedesco Schauble vanno in questa direzione.

Quando uno Stato non è più capace di pagare i suoi debiti si arriva al default. Il fallimento. Fine dei giochi. Ma cosa succede quando uno Stato fallisce? Non si sa: come ricordava il geniale Maurizio Gasparri, “se cerchi Default della Grecia su un’enciclopedia, non trovi nulla”. Ma l’ingenuità della frase tradisce un che di vero. Non c’è mai stato un caso di default vero e proprio. E, detto tra noi, nessuno degli stati attualmente “a rischio” fallirà davvero: la Grecia è un Paese con un’economia ridicola se confrontata con il resto dell’Europa e quindi si potrà salvarla; la Spagna non rischia il default, solo una seria regressione della sua economia (che andava come un treno fino a prima della crisi); gli Stati Uniti devono solamente aumentare il tetto del debito, e il gioco è fatto. Ma l’Italia? L’Italia rischia, perché siamo un Paese troppo grosso per essere salvato, e troppo indebitato. Uno Paese normale si svenerebbe per ridurre il debito, ridurre le spese, raggiungere il pareggio di bilancio (non spendere più facendo debiti), fare ripartire la crescita. Noi ci limitiamo solo al terzo obiettivo, prendendocela anche comoda: dovremo aspettare il 2013 per chiudere un bilancio come si deve. Nel frattempo il debito sarà cresciuto e l’economia sarà rimasta ferma. Ma, anche se l’obiettivo che ci poniamo è minimo, si tratta già di un passo avanti; e infatti è bastato a placare gli speculatori per qualche giorno.

Ma già solo il fatto che uno Stato in crisi non metta in pratica politiche economiche di ampio respiro, che vanno oltre il 2013, ci rende un Paese non credibile. E infatti dopo l’euforia le borse sono tornate a perdere. Quando in borsa il costo di un’azione schizza alle stelle, significa che molti investitori vogliono acquistarla (e quindi chi vede i titoli cerca di guadagnare il più possibile); quando un titolo perde valore, significa che nessuno vuole comprarlo (e quindi chi li vende li rende più “appetibili” abbassando il prezzo). Se la borsa di Milano perde, significa che ci sono meno persone interessate ad investire. E come dare loro torto? Non si può pretendere che si investa in un Paese in cui si fa fatica a capire quali misure saranno messe in campo oggi (e figuriamoci domani).
Lo stesso discorso vale per i titoli di Stato. Lo Stato per far fronte alle spese correnti (quelle di per la sua gestione e il suo funzionamento) ha bisogno di soldi, che si fa anticipare con i buoni del tesoro. Ogni buono rende a chi lo compra un tasso di interesse; più l’interesse è basso, minore è il rischio. Se l’interesse schizza alle stelle, chi compra il buono si assume più rischi (e quindi “merita” più interesse). In Italia l’interesse è cresciuto. Sarà un segnale? Forse è un segnale anche la crescita dello spread (la differenza di valore) tra i buoni Italiani e quelli tedeschi, considerati a basso rischio. Piùla differenza aumenta, più i titoli Italiani vengono valutati a rischio. E infatti c’è chi si affretta a sbarazzarsi dei suoi, come la Deutsche Bank (con molto poca solidarietà, verrebbe da dire).

Un quadro drammatico, soprattutto se si pensa che tutti i “disastri” (la borsa che crolla, gli interessi che crescono) sono tra noi da poco più di un mese e non sono destinati a finire in breve tempo, semmai a peggiorare. Per intervenire serve una politica economica sicura, che dia fiducia agli investitori (quelli onesti) scoraggiando la speculazione ed abbia ben chiari gli obiettivi a cui puntare. Ma qui il nostro governo latita, viste le condizioni numeriche della maggioranza e l’isolamento in cui si trova Tremonti (l’unico che ha fatto davvero qualcosa) nel suo partito. Serve un segnale, forte e deciso. Ma questa maggioranza non può darlo, e qui sta la sua colpa più grave.

GIORGIO MANTOAN

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