The Eddy, il potere catartico della musica in una miniserie d’autore firmata (anche) Chazelle
In una Parigi periferica e multicolore alcuni musicisti si riuniscono intorno al club The Eddy per sfuggire alle loro vite marginali
Uscita l’8 maggio su Netflix, The Eddy è una miniserie in otto episodi frutto di una riuscita collaborazione tra il regista Premio Oscar Damien Chazelle (Whiplash, La La Land), Alan Poul (Six Feet Under, The Newsroom), il vincitore del BAFTA Jack Thorne alla sceneggiatura e il sei volte vincitore del Grammy Award® Glen Ballard insieme a Randy Kerber alle musiche. Queste (tutte originali) sono eseguite da The EDDY BAND, che include lo stesso Kerber, Ludovic Louis, Lada Obradovic, Jowee Omicil, Damian Nueva Cortes e Joanna Kulig.
Elliot Udo (André Holland, già visto in Moonlight) è un jazzista newyorkese di successo ritiratosi dalle scene e trasferitosi a Parigi per sfuggire ai demoni legati alla perdita di un figlio e a un matrimonio fallito. Apre un club – il The Eddy, appunto – insieme al socio e amico Farid (Tahar Rahim) e cerca di mandarlo avanti nonostante l’ostilità di alcuni malavitosi del luogo e le difficoltà di natura personale. Raggiunto dalla figlia adolescente (Amandla Stenberg) turbolenta e per lui, disabituato al ruolo paterno, difficile da gestire, Elliot si barcamena in un susseguirsi di eventi sfavorevoli che mettono alla prova i rapporti con i membri della band. Elliot abbandona lo strumento, ma non la dedizione al locale nel quale ha riposto tutte le sue speranze.
Tutto per la Musica
Come già ci aveva raccontato Whiplash, la musica non è (solo) divertimento. Dedicarvisi per raggiungere l’eccellenza richiede un sacrificio che equivale a fare tabula rasa di tutto il resto: una forma radicale, quasi sacra di devozione. Ciò che conta per Elliot è che il locale diventi un punto di riferimento per il live d’eccellenza. Che la band che lo anima resti integra, a dispetto dei problemi che affliggono ciascuno dei membri faticosamente selezionati tra i migliori talenti in città.
Quando entra suo malgrado a contatto con un substrato criminale che minaccia la sua e le vite che gli stanno a cuore, Elliot sembra preoccuparsene meno che di tenere in piedi il club. Anche l’inferno va bene, per la salvezza che la musica offre in cambio di un voto. Che la messa a fuoco dell’intera serie sia sulla musica lo si evince fin dall’apertura. Con un bellissimo piano sequenza Chazelle ci trascina per la prima volta dentro il The Eddy. Aperte le porte, è tutta un’esplosione di suono che ci scaraventa in una dimensione “altra” che la fotografia esalta a tinte calde.
La musica non solo non è un orpello ma avviene sul serio, come un rituale magico intorno a un fuoco. Un incontro a più voci che anima la cupa lentezza del quotidiano di intralci e preoccupazioni, delusioni e perdite. Il suo è un potere salvifico, capace di trasformare il dolore in bellezza. Esibizioni intere chiariscono la non marginalità della colonna sonora, oltre che un sonoro ambientale al quale è prestata grande cura. È chiaro che senza un orecchio educato all’ascolto e un certo gusto per le sonorità jazz, buona parte della potenza e carica emozionale della serie viene meno.
Non una serie sul jazz, ma una serie jazz
The Eddy infatti non offre soluzioni avvincenti, cliffhanger e adrenalina visiva e non rispetta i canoni della serialità. La sua ragion d’essere, piaccia o no, non è nel plot. Dai toni molto “europei”, The Eddy si concentra perlopiù sui personaggi, sul modo in cui ciascuno combatte nel quotidiano, sul conflitto tra aspirazione e realizzazione. Abbandonati i toni pastellosi di La La Land, l’estetica di Chazelle si avvicina a quella di Kechiche. Assorbe i toni della Parigi multietnica per fotografare con pregevole verosimiglianza la vita dell’artista medio nella società attuale, con tutto il carico di preoccupazioni, specie di natura finanziaria, che si trascina. E per questi musici del caos riconciliati sotto il vessillo del The Eddy – tempio di pace al di là del trambusto del flusso – l’irrequietezza è un’ombra familiare.
Ogni episodio è un assolo. Ci racconta – dichiarandolo sin dal titolo – di un personaggio che orbita intorno al club, del suo presente di mancanze esorcizzate nello strumento. L’ultimo prende il nome del club, come ad incarnare un personaggio esso stesso, che li include e coinvolge tutti. Anche il ritmo è tendenzialmente lento. Con episodi mirati a ritrarre il contesto ed altri incentrati sulle sottotrame – deboli, quando deviano dalla centratura musicale per inoltrarsi nei territori del gangster senza mai esplorarli – segue il medesimo ritmo sincopato del jazz, non lineare, discontinuo, con vertici di pura energia casuale. Un prodotto, The Eddy, essenzialmente di nicchia, destinato a un pubblico smaliziato e musicofilo.
Cinéma vérité in una Parigi antiromantica
A dispetto dei suoi toni blue, The Eddy non è mai stucchevole né retorico nel parlare di sacrificio per il sogno, di vite marginali oltre l’aura conferita dal palcoscenico. Merito anche del lavoro degli attori, i quali recitano, suonano e cantano con la naturalezza dell’improvvisato, quasi a farci dimenticare si tratti di fiction.
Lo sfondo è una Parigi non edulcorata e non turistica dai sobborghi sporchi di spaccio e sangue sui marciapiedi e incroci di culture che finiscono in musica ai bordi delle strade, ovunque ci sia bisogno di una preghiera di conforto. A incarnare l’essenza della tensione edenico – infernale di questa verità vibrante è Joanna Kulig, che ha lasciato un marchio nella nostra memoria acustica e visiva con il polacco Cold War: attrice di grande pregio, con una voce luminosa quanto lo sguardo azzurro, qui gonfia di parto fresco e ancora divina nel ruolo della compagna di musica e di vita del protagonista.
Alla resa naturalistica contribuisce anche la regia, che opta opportunamente per il 16 mm e la macchina a mano per esaltare la verità sgranata della messinscena. Rifacendosi un po’ alla Nouvelle Vague e un po’ alla New Hollywood, con movimenti di ripresa vorticosi, fuori fuoco, inquadrature strette e primi piani traballanti, long take e ambienti che colgono l’impronta dei personaggi che li abitano, Chazelle dirige i primi due episodi con un chiaro intento da cinéma vérité. Quanto ai restanti sei, seppure meno ricercati formalmente, si mantiene una omogeneità stilistica e una regia di ottimo livello.
Contaminazioni
In un intreccio di lingue, etnie e culture diverse tipico delle banlieue la musica è, oltre che veicolo di liberazione, anche un linguaggio comune. L’unico che permetta di comunicare laddove le parole non riescono ad arrivare. Francese, inglese, arabo, polacco e romaní si mischiano continuamente, così come il jazz si mescola all’hip hop e alle sonorità arabe. E la contaminazione abbraccia ogni aspetto della serie, dai toni, ai generi, ai temi e linguaggi, muovendosi con la stessa fluidità precaria delle vite legate a doppio filo dal sangue e dalla musica. In questo dinamismo di influenze spesso però la narrazione rallenta per focalizzarsi altrove, intraprende strade secondarie che si rivelano vicoli ciechi.
Se da un lato i momenti introspettivi risultano ampiamente riusciti, non si può dire infatti altrettanto di quelli thriller. Questi peccano di originalità e appaiono forzati, privi di mordente. Probabilmente inseriti per dare un tono arioso, più concitato al racconto e coinvolgere un pubblico più ampio, finiscono per appesantire la narrazione, generando un evidente squilibrio tra i suoi elementi. Un peccato questo, per un’opera di livello che poteva osare di più, perseguendo la strada dell’autorialità senza cimentarsi con ciò che non le appartiene.
The Eddy è stata distribuita sulla piattaforma Netflix a partire dall’8 maggio 2020.
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FONTE IMMAGINI: badtaste.it.