Berlusconi e Ruby: i fatti
Davvero, come sostiene il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, «il bunga bunga era una bufala»? E siamo proprio sicuri che ora, come ha affermato il candidato del Pd alla guida della Puglia, Michele Emiliano, «la procura di Milano dovrebbe chiedere scusa a Silvio Berlusconi»? Anche se in attesa delle motivazioni della Cassazione, un’analisi dei fatti che hanno portato all’epilogo del primo filone del Ruby-gate fa pensare a molto altro.

LA CASA (CHIUSA) DELLE LIBERTÀ.
Rispetto alle parole di Sallusti, la situazione risulta molto chiara. Oltre alle condanne in primo grado e in appello del Ruby-bis che vede imputati Emilio Fede, Nicole Minetti e Lele Mora, sono le stesse motivazioni della sentenza di secondo grado che ha assolto Berlusconi che consentono di affermare che «è stata acquisita prova certa dell’esercizio di attività prostitutiva ad Arcore» (p. 306). La stessa difesa dell’ex Premier in Cassazione non ha più ritenuto opportuno mettere in dubbio il fatto: «[l]a sentenza della corte d’Appello ammette che ad Arcore avvenivano fatti di prostituzione con compensi, cosa che non contestiamo nemmeno noi difensori», ha detto l’avvocato Coppi. Ergo, il bunga bunga è tutto, fuorché una bufala.
IL CODICE EMILIANO.
Per passare dall’affermazione di Sallusti a quella di Emiliano ci si deve addentrare nei dettagli dei processo. Nonostante il ruolo ricoperto in passato nella magistratura, l’attuale esponente del Pd ha dimostrato di dimenticare, oltre all’esistenza di una condanna in primo grado che ha avvallato la ricostruzione dei pm, anche un altro passaggio fondamentale dell’iter di un procedimento penale. Nessuna procura, infatti, può disporre il rinvio a giudizio: esso rientra nelle competenze del giudice dell’udienza preliminare o, in caso di giudizio immediato, come è avvenuto per questo processo a Berlusconi, del giudice delle indagini preliminari. Se si è arrivati al processo, in sostanza, non è solo merito (o colpa, dipende dai punti di vista) della Boccassini o di Bruti Liberati, ma anche – se non soprattutto – di un gip che ha valutato la possibile sussistenza dell’ipotesi di reato. A voler essere obiettivi, del resto, è difficile pensare, come invece sembra fare Emiliano, che tutti i fatti fossero già chiari nel delineare la non colpevolezza e che, di conseguenza, quel processo non s’aveva da fare: diversi punti meritavano di provare a essere chiariti attraverso un contraddittorio delle parti, anche al di là delle prove su cui si basa il Ruby-ter (i bonifici inviati da Berlusconi alle Olgettine durante le indagini e addirittura nel corso del processo).

LA PROSTITUTA MINORENNE, A SUA INSAPUTA.
Rispetto all’imputazione di prostituzione minorile, occorreva verificare in ordine consequenziale: 1) la presenza di prostitute ad Arcore; 2) il ruolo di Ruby; 3) la consapevolezza di Berlusconi di essere di fronte a una minorenne. Se i primi due punti sono stati riconosciuti integralmente (in attesa delle motivazioni della Cassazione, cfr. le pp. 258-311 di quelle d’Appello: rispetto alla sola Ruby, tra gli altri indizi «si rileva […] lo svolgimento […] di attività di meretricio prima, durante e dopo la sua frequentazione di Arcore»), solo il terzo – secondo i giudici dell’Appello e di Cassazione, ma non per quelli di primo grado – non è stato dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio. Al riguardo, come è stato rilevato altrove, oltre a notare che, in generale, l’interpretazione non univoca dei fatti, certificando l’esistenza di un dubbio, giustifica l’approfondimento giudiziario, resta da capire perché, quando Ruby venne arrestata per furto il 27 maggio 2010, pur ritenendola maggiorenne, Berlusconi abbia proposto di affidarla a una persona di fiducia (Minetti), come si fa invece con i minori di 18 anni.
SEVERINO SANTA SUBITO.
Pur nella sua tecnicità, il discorso relativo all’altro capo d’imputazione di Berlusconi, la concussione, risulta ancor più semplice: i fatti sono chiari, soprattutto se vengono messi in ordine cronologico. Rispetto al possibile abuso della propria carica per ottenere la liberazione immediata di Ruby, Berlusconi era stato indagato e rinviato a giudizio tra la fine del 2010 e il febbraio 2011 sulla base dell’art. 319 del codice penale che, all’epoca, puniva «con la reclusione da quattro a dodici anni» «l pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro o altra utilità».
L’intervento a processo in corso della legge Severino contro la corruzione, in vigore dal 6 novembre 2012, ha però cambiato le carte in tavola, spacchettando il reato in «concussione per costrizione» e «concussione per induzione». I rispettivi ambiti, inizialmente poco chiari, sono stati delimitati dalle Sezioni unite della Cassazione il 14 marzo 2014 (dunque ben dopo l’inizio delle indagini, il rinvio a giudizio e la sentenza di primo grado): la norma sulla costrizione richiede di dimostrare solo la minaccia che costringe il concusso a cedere all’abuso di potere; quella sull’induzione prevede di documentare anche l’indebito vantaggio prospettato dal concussore per ottenere il favore dal concusso.

Rispetto a questo quadro, fino all’approvazione della legge Severino – votata da tutta la maggioranza che reggeva il Governo Monti (il Pd e l’allora Pdl), con l’aggiunta della Lega – l’ipotesi di una concussione da parte di Berlusconi era sostenibile in tribunale. Magari non si sarebbe concretizzata in una condanna, ma sicuramente poteva essere portata al vaglio dei giudici: considerata la sua carica, le telefonate dell’ex Premier al capo di gabinetto della Questura di Milano, Ostuni, delineavano certamente una forma di pressione che, senza la richiesta di dimostrare un do ut des, poteva essere interpretata come un reato. Solamente dopo la pronuncia delle Sezioni unite (e la conseguente modifica dell’imputazione in concussione per induzione) l’assoluzione è diventata un’ipotesi molto più concreta: come esplicitato ancora una volta dalle motivazioni della sentenza di secondo grado alle pp. 237-257, senza l’intervento della Severino staremmo parlando verosimilmente d’altro.
I TRIBUNALI E LA STORIA.
Analizzati con la dovuta calma, i fatti presi in considerazione mettono in rilievo la delicatezza con la quale si dovrebbe parlare degli argomenti relativi alla giustizia: le semplificazioni dalle quali siamo partiti non aiutano in alcun modo e, anzi, fanno passare dei messaggi totalmente fuorvianti.
Se dovessimo applicare nella quotidianità il pensiero di Emiliano, infatti, saremmo costretti a concludere che i processi servono unicamente a condannare gli imputati e non a provare a fare chiarezza su un reato ed, eventualmente, ad assolvere gli innocenti.
Con Sallusti, invece, dovremmo pensare che, certificata per qualsiasi motivo l’innocenza di una persona rispetto a un certo reato, la stessa vicenda al centro del processo scompare. Al di là dell’illogicità di tali ragionamenti, preme evidenziare nuovamente il rischio che entrambi prefigurano a livello più generale, l’affidamento ai soli tribunali della ricostruzione storica. Ne abbiamo già parlato dopo la condanna in secondo grado di Mora, Minetti e Fede, ma occorre ribadirlo: non è il dispositivo di una sentenza a fare la storia, né spesso possono bastare le sole motivazioni. Le corti giudicano la realtà solo sulla base del codice penale stabilito dal legislatore; la storia no: fortunatamente, ha orizzonti infinitamente più ampi.
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