COP21, tra l’accordo storico e il compromesso al ribasso
Guardo la sala, vedo che la reazione è positiva, non sento obiezioni…l’accordo di Parigi per il clima è accettato“. Così Laurent Fabius, ministro degli Esteri francese, nell’euforia generale, ha chiuso 8 giorni fa la Cop21 (la 21esima conferenza dell’ONU sul clima tenutasi a Parigi), di cui era presidente.
Lui, il presidente della Repubblica francese Hollande e il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon hanno definito l’accordo “storico”. Lo stesso Fabius ha spiegato: “E’ necessario per il mondo intero e per ciascuno dei nostri paesi. Questo accordo sarà al servizio delle grandi cause: sicurezza alimentare, lotta alla povertà, diritti essenziali e alla fine dei conti, la pace”.

In pratica non si tratta solo di ridurre le emissioni inquinanti e limitare l’aumento dei gradi centigradi, ma di costruire le basi per una giustizia sociale mondiale, secondo quello schema tanto caro a studiosi ed attivisti-ecologisti di: stabilità climatica = pace = sviluppo economico = rispetto dei diritti umani.
Ma andiamo con ordine.
LA 21ESIMA CONFERENZA ONU
In una Parigi blindatissima a causa dei recenti attentati terroristici, per 12 lunghi giorni si sono riunite le delegazioni di 195 paesi del mondo, nel tentativo di negoziare un documento che potesse mettere un freno al cambiamento climatico.
Si trattava e si tratta della nostra ultima chance. Gli ultimi studi scientifici, infatti, stimano che, se l’umanità continua a produrre e consumare come sta facendo ora (secondo la modalità presentista e menefreghista del Business as usual), già dopo il 2030 potrebbero scattare i primi tipping points, i punti di non ritorno.
E’ oramai da 23 anni che la comunità internazionale si è resa conto del problema climatico. Aumento della temperatura, scioglimento dei ghiacciai, acidificazione dei mari, stravolgimenti nei ritmi stagionali e negli equilibri delle correnti oceaniche, siccità, desertificazione: sono tutti cambiamenti già in atto da molto tempo. E il rischio umano è molto più elevato di quello che immaginiamo: perché l’instabilità polarizza le differenze economiche e le tensioni legate alle risorse naturali, generando molto probabilmente caos e conflitti.
L’ONU aveva cominciato a ragionarci nel lontano 1992, alla Conferenza di Rio de Janeiro, quando si decise di incontrarsi annualmente per una serie di Conferenze delle Parti (COP). Fu la COP3, quella di Kyoto, la prima vera discussione in merito. Ne uscì il Protocollo di Kyoto, un documento che produceva riduzioni legalmente vincolanti delle emissioni dannose. Ma gran parte delle promesse e degli accordi siglati lì non furono mantenuti. Così ci fu la COP4,5,6 ecc…fino alla disastrosa COP19 a Varsavia, in cui le ONGs (organizzazioni non governative) abbandonarono i lavori per protesta contro la carenza di provvedimenti sottoscritti da parte dei Paesi industrializzati.

Ed ecco che si arriva a questa COP21, alimentata negli ultimi due anni da un clima misto di disfattismo e speranza, nella convinzione generale di non avere più tempo da perdere.
OBIETTIVI E COMPROMESSI
Alla base di questa conferenza c’era lo scontro tra le storiche economie potenti (Europa e Stati Uniti) ed i paesi in via di sviluppo (Brasile, India, Russia, Arabia Saudita, ma sopratutto Cina sempre più leader del commercio mondiale, ma anche primo paese per emissioni inquinanti) con i paesi poveri del Terzo Mondo sullo sfondo a recriminare tutte le colpe dei grandi.
Gli obiettivi fissati da studiosi, attivisti e molti uomini politici per questo evento erano: la limitazione dell’aumento della temperatura globale a 2 gradi centigradi (soglia superata la quale ci sarebbero effetti nei mari e nei territori terrestri quasi irreversibili); un drastico abbassamento delle emissioni di gas serra (per non superare mai le 800 gigatonnellate di carbonio nell’atmosfera); almeno una previsione del raggiungimento della neutralità carbonica (fine delle energie non rinnovabili altamente inquinanti, sostituite da quelle rinnovabili e green); una modalità di finanziamento per i paesi poveri ed in via di sviluppo per lottare contro i rischi legati al clima e impegnarsi a favore di uno sviluppo sostenibile (visto che i fondi già previsti in COP15 a Copenhagen non sono mai stati del tutto sbloccati).
Durante lo svolgimento dei lavori Stati Uniti, Europa e paesi più deboli del pianeta si sono alleati formando una High Ambitious Coalition, una coalizione con gran parte degli obiettivi previsti: soglia dei 2 gradi attraverso green economy e finanziamenti dai paesi più ricchi.
Lo scontro con Brasile, India e Cina è stato duro: le cosiddette BRICS, infatti, sono da anni in espansione economica (nonostante il Brasile abbia subto recentemente una grande botta d’arresto) e rifiutano di doversi limitare pagando le colpe di altri.

Alla fine, però, si è giunti ad un compromesso che si basa sulla consapevolezza comune dei rischi delle mutazioni climatiche, sulla maggiore responsabilità dei paesi industrializzati occidentali (Europa e Stati Uniti) che hanno determinato in gran parte questa situazione e su un atteggiamento più conciliatorio delle suddette BRICS .
Così si è giunti alla stesura di un documento che sostituirà a partire dal 2020 il Protocollo di Kyoto (che era stato prorogato nel 2011).
IL CONTENUTO DEL DOCUMENTO
Questi sono i 5 punti fondamentali:
1) Aumento della temperatura entro i 2 gradi: l’accordo stabilisce che le emissioni inquinanti devono cominciare a calare dal 2020 e lo sforzo va contenuto “ben al di sotto dei 2 gradi centigradi”, cercando di fermarsi a +1,5°, indice la cui citazione è stata fortemente voluta dall’Italia, con il ministro dell’Ambiente Galletti si è battuto con tenacia per tale risultato. Già dal 2018, tuttavia, si dovranno riscontrare i primi risultati, a garanzia dell’accordo stesso e tutti i paesi devono puntare a raggiungere il picco di emissioni “il più presto possibile“. Se tutti rispetteranno i patti nella seconda metà del secolo si potrebbe arrivare al traguardo di “zero emissioni nette” (gas inquinanti emessi non superiori alla capacità di riassorbimento naturale).
2) Sforzo comune su base volontaria: tutti gli Stati del mondo si impegnano a presentare propri piani nazionali di taglio, che tuttavia saranno volontari, cioè senza vincoli numerici prestabiliti o sanzioni in caso di non raggiungimento degli obiettivi preposti.
3) Revisione quinquennale: ogni 5 anni, attraverso nuove conferenze, verranno controllati i risultati raggiunti dalle Nazioni (che dovranno rispondere all’opinione pubblica in caso di elusione delle promesse fatte) e stabilite possibili modifiche solo in senso positivo (aumentare gli sforzi). Il primo controllo ci sarà nel 2023.

4) Finanziamenti responsabili per l’energia sostenibile: Stati Uniti ed Unione Europea erogheranno dal 2020 100 miliardi l’anno per finanziare i paesi poveri ed in via di sviluppo, in modo tale che essi possano sviluppare tecnologie green eliminando il più possibile le fonti fossili (prima tra tutte il carbone). Al fondo, tuttavia, potranno contribuire anche altre nazioni o investitori privati. Nel 2025, poi, si farà il punto della situazione e verrà fissato un nuovo obiettivo finanziario.
5) Rimborsi climatici: viene istituito un sistema di risarcimenti per le perdite economiche determinate dai cambiamenti climatici nei paesi che hanno subito o che rischiano catastrofi naturali.
LE REAZIONI E LE CRITICHE
Secondo Fabius questi provvedimenti “aiuteranno gli stati insulari a tutelarsi davanti all’avanzare dei mari che minacciano le loro coste, daranno mezzi finanziari all’Africa, sosterranno l’America Latina nella protezione delle sue foreste e appoggeranno i produttori di petrolio nella diversificazione della loro produzione energetica“.
Hollande e Obama hanno salutato con soddisfazione l’intesa raggiunta, pur facendo capire che vi sono dei limiti. Il presidente francese, infatti, ha precisato che “non tutte le richieste sono state soddisfatte, ma è un accordo che vale un secolo”, mentre l’inquilino della Casa Bianca ha dichiarato: “Il mondo si è impegnato per un futuro più pulito, l’accordo non è perfetto, ma fornisce un quadro durevole…è una svolta…la migliore chance che abbiamo per salvare il pianeta“.
Sulla stessa linea, ma per ragioni opposte, la Cina, i cui delegati hanno parlato di un documento “buono, ma non ideale“.
Più ottimista, invece, è stato Ban Ki Moon, affermando che un accordo “ambizioso ed equilibrato, che riflette le posizioni delle parti, ma soprattutto è vincolante“.

Proprio su quest’ultima parola si scatena il dibattito pubblico. Come può essere vincolante un accordo che non prevede nessuna sanzione o organo terzo di controllo e stabilisce invece che le verifiche dei risultati raggiunti sono auto-certificate da ogni Stato?
A sottolineare la criticità è Filippo Giorgi, scienziato italiano membro dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC, organizzazione vincitrice del Premio Nobel per la pace 2007) secondo cui il documento “doveva essere più stringente di Kyoto, ma, a conti fatti, non lo è per nulla. E’ un accordo non vincolante, che dal punto di vista attuativo non contiene molto”.
In pratica si tratta di un testo formalmente vincolante a cui si impegnano tutti gli Stati, ma che prevede la possibilità impunita di eludere gli obiettivi. Ad essere obbligatoria, infatti, è la riduzione del surriscaldamento entro i 2 gradi, ma ciò non si traduce in altrettanti specifici provvedimenti obbligatori.
Questi caratteri di volontarietà ed auto-controllo, in base ai retroscena rivelati dal giornale The Guardian, sarebbero stati inseriti per paletti posti sia dai paesi produttori di combustibili fossili e in via di sviluppo (primo tra tutti la Cina) sia dagli Stati Uniti, perché un accordo legalmente vincolante per la giurisdizione americana avrebbe significato un trattato da votare e approvare al Congresso. E dato che lì la maggioranza parlamentare è repubblicana, la paura è che sarebbe stato bocciato.
La mancanza di rigidità si lega inevitabilmente ai risultati da raggiungere. “Dire che si deve mantenere il surriscaldamento entro i 2 gradi è una frase troppo generica” spiega Giorgi e forse potrebbe rimanere solo come una serie di parole su carta.
Secondo Luca Iacoboni di Greenpeace, infatti: “Anche se rispettati, gli impegni nazionali promessi porterebbero comunque a un’aumento della temperatura tra i 2,7 e i 3 gradi“.

Per constatare la verità di questa affermazione basterebbe sommare tutte le riduzioni di anidride carbonica, rese pubbliche, da attuare: si constaterebbe così la limitatezza degli impegni. Della stessa idea è anche Legambiente.
Alle loro spalle decine e decine di professori e scienziati. A sentire Corinne LE Quéré, del Tyndall Centre for Climate Change Research: ” I tagli alle emissioni promessi dai paesi ora sono ancora del tutto insufficienti”, mentre Diana Liverman, dell’Institute of the Enviroment dell’Università dell’Arizona sostiene: “Gli attuali impegni nazionali, gli INDC, ci portano sopra i 2 gradi. L’accordo sottintende che questi non possono essere rivisti fino al 2018, e nel frattempo avremo bruciato ancora più combustibili fossili e incrementato il riscaldamento del pianeta“.
Dunque impegni pratici esigui rispetto all’obiettivo fissato, ma anche poco coraggio nell’approfondire la questione delle energie rinnovabili. Queste ultime nel testo sono citate poche volte e non è stato fissato un calendario che porti alla sostituzione delle fonti energetiche fossili non rinnovabili. Gli ambientalisti sostengono che si tratta di un favore ai produttori di petrolio e continuano a chiedere una riduzione del 70% delle energie sporche entro il 2050.
E ancora, Antonio Lumicisi di Fondazione Ambiente pulito parla di un “enorme assurdità nel mettere sullo stesso piano alcuni diritti, da una parte quelli degli Stati-isola e dei Paesi più poveri e quindi più vulnerabili ai cambiamenti climatici e, dall’altra, quelli dei Paesi produttori di combustibili fossili” in via di sviluppo.
Infine c’è chi si lamenta del fatto che il documento realizzato non colpisce affatto le emissioni di navi e aerei, per definizioni “internazionali” e quindi non assegnate a nessun paese in particolare.

In pratica c’è ancora molto altro da fare e se non lo si farà le conseguenze saranno inevitabilmente gravi. Tuttavia gli stessi scienziati e le ONGs sottolineano l’importanza di questa COP21.
“E’ un punto di partenza” (Johan Rockstrom, Stockholm Resilience Centre), “Ha il vantaggio di mettere i produttori di petrolio e carbone dal lato sbagliato della storia” (GreenPeace), “E’ un forte segnale” (WWF) dichiarano.
IL CONTRIBUTO DI TUTTI
L’opinione diffusa è che poteva andare molto peggio e che dopotutto si è fatto qualcosa che non ci si aspettava. Troppo poco forse per parlare di accordo storico, ma probabilmente anche qualcosa in più di un compromesso al ribasso.
Ora l’accordo sarà aperto alle firme dei paesi mondiali dal 22 aprile 2016 al 21 aprile 2017, per poi entrare definitivamente in vigore nel 2020.
E qualsiasi cosa si pensi su di esso una cosa è certa: la lotta al cambiamento climatico non è possibile senza il coinvolgimento di ognuno di noi, senza le nostre piccole azioni quotidiane dirette in quel senso.
Forse, allora, ha davvero ragione Filippo Giorgi quando afferma: “Credo che non ci sarà mai un accordo sul clima vincolante a livello di governi , la vera spinta deve venire dal basso. Oggi, per esempio, sarebbe difficile costruire una nuova centrale a carbone perché è nato un cambiamento di prospettiva della società civile verso la green economy. È su questa spinta dal basso che dobbiamo contare, a prescindere da qualunque accordo possa mai essere preso“.
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