Caso Regeni, dalla misteriosa scomparsa alle indagini in corso
Il 25 gennaio del 2016 il ricercatore italiano Giulio Regeni è scomparso al Cairo , in Egitto, dove si era recato per scrivere una tesi sull’economia del Paese. Il suo corpo è stato ritrovato solamente il 3 febbraio nella capitale egiziana con gravi mutilazioni e segni di violenze.

Chi era Giulio Regeni? Cosa ci faceva al Cairo? Perché sarebbe stato rapito e torturato? Cerchiamo di rispondere a tutti questi interrogativi ripercorrendo gli sviluppi delle indagini ancora in corso sulla sua misteriosa scomparsa.
IL PERCORSO ACCADEMICO DI REGENI
Originario del Friuli-Venezia Giulia, Giulio Regeni, ricercatore italiano di 28 anni, era quello si può definire un ‘cittadino del mondo‘: a diciassette anni, infatti, era già negli Stati Uniti, dove vince una borsa di studio allo United World College American West, nel New Mexico, sede dell’Armand Hammer United World College of the American West, una scuola biennale orientata allo studio dei conflitti. Il suo percorso accademico prosegue poi nella prestigiosa Università di Cambridge, dove si specializza negli studi di area umanistica e diventa ricercatore. Per la sua tesi di dottorato si reca al Cairo dove intraprende degli studi sul campo riguardanti le attività sindacali in Egitto. Si trovava lì in qualità di “visiting scholar” all’American University del Cairo.
Anne Alexander dell’Università di Cambridge e Maha Abdelrahman dell’American University del Cairo sono le due relatrici che avevano assegnato allo specializzando Regeni una ricerca sull’opposizione al duro regime egiziano di Al Sisi. Le due professoresse lo avevano incitato a prendere contatti con esponenti dell’opposizione e non si erano fatte scrupoli a spingerlo ad esporsi frequentando riunioni sindacali in cui si progettavano scioperi illegali, mettendo a rischio la sua incolumità fisica. Una prassi, questa degli illustri professori universitari, che sembra ben consolidata all’interno del mondo accademico. I docenti che approvano e seguono le tesi di dottorato, infatti, hanno una responsabilità particolare nei confronti dei loro studenti, che la maggior parte delle volte preferiscono non assumersi. Chiunque conosca anche solo minimamente il contesto repressivo egiziano, quindi, non avrebbe dovuto permettere a un dottorando di effettuare ricerche così pericolose senza garantirgli standard di sicurezza adeguati. Non va dimenticato, inoltre, che l’Egitto è un Paese in cui pendono più di 1.000 condanne a morte già pronunciate per gli oppositori, in cui agiscono le squadre della morte e in cui i desaparecidos denunciati dalle organizzazioni umanitarie sono ben più di 200.

Un articolo di Regeni era stato pubblicato il 14 gennaio 2016 per l’agenzia di stampa Nena e il 5 febbraio, due giorni dopo la sua morte, dal quotidiano Il Manifesto. Il New York Times, invece, il 12 febbraio scrive che i servizi segreti egiziani erano convinti che Regeni si trattasse di una spia, soprattutto per via dei suoi contatti con i Fratelli musulmani (il partito dell’ex presidente Mohamed Morsi, deposto nel luglio del 2013) e altri gruppi dell’opposizione. Quest’ipotesi è, però, ritenuta poco credibile da Amr Assad, un amico egiziano del ricercatore che è stato intervistato da Il Fatto Quotidiano.
All’origine della morte di Regeni, invece, potrebbero esserci proprio le informazioni raccolte durante le sue ricerche sui sindacati, che sarebbero state intercettate dai servizi segreti egiziani. Le università in Egitto, da quando è in carica il governo del generale Abdel Fattah Al Sisi, sono tenute sotto stretta sorveglianza dalle forze di sicurezza. Carlo Bonini e Giuliano Foschini scrivono su la Repubblica che Regeni potrebbe essere rimasto vittima di un conflitto tra diversi apparati di sicurezza dello Stato.
SVILUPPI DELLE INDAGINI SULLA SCOMPARSA E SULLA MORTE DI REGENI
Il 25 gennaio del 2016, giorno della scomparsa del ricercatore italiano, non è un giorno qualunque per il Cairo: si tratta, infatti, del quinto anniversario della rivoluzione del 2011 con cui fu rovesciato il presidente Hosni Mubarak. La capitale egiziana è blindata dal momento che il governo teme manifestazioni spontanee da parte dell’opposizione, come avvenuto lo scorso anno.

Quel giorno Giulio Regeni si trova nella sua casa nel quartiere di Dokki, situato sulla riva sinistra del Nilo. Alle ore 19:40 ha in programma l’incontro con Gennaro Gervasio, un docente napoletano che lavora all’Università britannica del Cairo, presso un caffè, in piazza Tahrir, luogo simbolo della rivoluzione del 2011, nonché uno degli obiettivi più controllati dalla polizia durante quell’anniversario. I due, in seguito, si sarebbero dovuti recare insieme al compleanno di Kashek Hassameien, un intellettuale egiziano dissidente, punto di riferimento dell’opposizione al regime di Al Sisi.
Regeni esce di casa per recarsi alla fermata della metropolitana vicino casa, ma alle 20:18 non è ancora giunto a destinazione; così Gervasio inizia a chiamarlo al cellulare, senza però ottenere risposta. Dopo le 21, quando è passata circa un’ora e mezza dal loro appuntamento, il docente, preoccupatosi, decide di chiamare alcuni suoi amici con toni allarmati, non sapendo come spiegare il motivo di quell’insolito ritardo. La sua inquietudine è accresciuta da un fatto di cui lo studente lo aveva messo al corrente pochi giorni prima: Regeni gli aveva raccontato di essersi recato, l’11 dicembre, a una grande assemblea dell’opposizione egiziana e di aver avuto l’impressione di esser stato fotografato. Il suo volto, secondo lui, era stato messo bene a fuoco dall’autore degli scatti anche perché, secondo le ricostruzioni dei media, era l’unico occidentale presente a quell’assemblea. Fu proprio questo sospetto che lo spinse a chiedere al quotidiano il Manifesto, quando gli inviò il suo articolo sui sindacati egiziani, di pubblicare quel pezzo con uno pseudonimo.
Secondo un web designer che lavora vicino a condominio dove abitava Regeni, pochi giorni prima della sua scomparsa, la polizia egiziana si era recata proprio in quel complesso per effettuare un controllo. Non è chiaro se cercasse qualcuno in particolare o se fosse un semplice controllo di routine come ve ne sono a centinaia in una città in cui la tensione in questo periodo è alle stelle.

Un inquilino della stessa palazzina dove viveva il nostro connazionale ha dichiarato agli investigatori italiani di aver assistito al suo rapimento, prima dell’ingresso della metropolitana. «Erano due poliziotti in borghese, uno di loro tre giorni prima era venuto nel condominio a controllare i documenti». Ma l’orario indicato, le 17.30 di pomeriggio, non convince il team italiano alla luce delle telefonate e dei messaggi inviati da Giulio fino alle 19.40 di sera. Inoltre il suo coinquilino El Sayed nega l’ispezione a domicilio della polizia. Il New York Times ha invece raccolto la testimonianza di tre funzionari della sicurezza egiziana che indicano come autori del sequestro gli uomini di un’agenzia di Intelligence.
Questo succedeva il 25 gennaio, in seguito, per diversi giorni non si è avuta più alcuna notizia, nonostante l’interessamento dell’ambasciata italiana al Cairo. Solamente il 3 febbraio il corpo di Regeni è stato ritrovato ai lati di una strada al Cairo.
Secondo l’agenzia Reuter il ricercatore friulano è stato torturato con scariche elettriche ai genitali e aveva 7 costole rotte. Ma l’autopsia effettuata a Roma dal professor Fineschi, non ha riscontrato segni di scosse o bruciature, anche se si attende la conferma dell’esame istologico. Molte, invece, le fratture riportate in varie parti del corpo: oltre alle spalle e al torace, Giulio aveva anche mani e piedi fratturati. Mortale il colpo al collo, con la rottura della prima e della seconda vertebra cervicale del midollo spinale. La parte superiore delle orecchie è stata tagliata e la pianta dei piedi era ricoperta di tagli, effettuati forse con un punteruolo.
I suoi report sul mondo sindacale autonomo sono ancora dentro al computer, riportato in Italia dai genitori del ragazzo che lo hanno prelevato nel suo appartamento al Cairo, ora al vaglio dei tecnici della Scientifica della procura di Roma. È probabile che l’attività di ricerca partecipata, in collaborazione come soggetto attivo con associazioni non governative o dissidenti egiziane, abbia attirato l’attenzione dei servizi di sicurezza egiziani.

Il ministro dell’Interno egiziano, Magdi Abdel Ghaffar, in una conferenza stampa, ha porto le sue condoglianze al popolo e al governo italiano e ha smentito categoricamente ogni accusa di coinvolgimento dell’apparato di sicurezza egiziano nella morte di Regeni, ribadendo la piena collaborazione con il nostro pool d’indagine in trasferta al Cairo su mandato del pm della procura di Roma Sergio Colaiocco.
Ma concretamente il governo egiziano non sembra agire con molta trasparenza. Il computer del ricercatore italiano, infatti, è l’unico elemento in mano ai nostri inquirenti; per il resto ai nostri investigatori non è stata consegnata alcuna prova documentaria dai parte dei colleghi egiziani. Né tabulati, né video, né verbali. Gli investigatori egiziani, che hanno potuto visionari i filmati, hanno dichiarato l’assenza di Giulio sia all’ingresso della metro Bohooth, sotto casa, sia nel luogo dell’appuntamento con Gennaro. Il New York Times sostiene, però, che la polizia egiziana non ha chiesto i video ai negozi lungo il percorso.
Alcuni giorni prima della sua scomparsa, Regeni aveva scritto via Messenger a un ex compagno di Cambridge: «Per la mia ricerca devo incontrare un pezzo grosso. Incrociamo le dita». Di chi si tratta? Del sociologo Kashek o di un altro dissidente? È il rapporto con questa persona e con gli altri contatti dell’opposizione ad Al Sisi ad aver causato l’interesse per lui in chi lo ha torturato a morte?
Intanto, negli ultimi giorni, è emerso un elemento inquietante che, se venisse confermato dalle indagini, potrebbe avere importanti conseguenze sul piano diplomatico: per la realizzazione dei suoi report, Regeni avrebbe lavorato a stretto contatto, probabilmente a sua insaputa, con un infiltrato dei servizi segreti inglesi. Giulio è stato quindi usato come una pedina nello scacchiere dello spionaggio internazionale, sull’asse Londra-Il Cairo? Se così fosse, le ripercussioni sugli equilibri tra Italia e Gran Bretagna sarebbero molto pesanti.
Nel frattempo, alcuni parlamentari di Westminster cappeggiati dal deputato laburista per il seggio di Cambridge, Daniel Zeichner, hanno iniziato a chiedere al governo l’avvio di un’inchiesta pubblica ufficiale sul delitto.
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