Il Jobs Act e il metodo-Renzi
E alla fine la riforma del lavoro divenne realtà: dopo l’approvazione della sua architettura da parte del Parlamento nello scorso dicembre, con i decreti attuativi del Consiglio dei Ministri di venerdì il Jobs Act entra ufficialmente nelle nostre vite. Se la sua complessità dovrebbe suggerire grande cautela nell’esprimere giudizi definitivi sui suoi effetti, l’iter che ha portato alla sua nascita consente quantomeno di delineare il modello politico portato avanti da Renzi nel corso del primo anno di vita del suo Governo.
LE RIFORME CAMALEONTICHE.
La gestazione del provvedimento mette in rilievo innanzitutto i continui ripensamenti del Governo in materia legislativa: il testo approvato in via definitiva risulta totalmente diverso da quanto comunicato da Renzi nel corso di questi mesi. Al di là della modifiche che hanno imposto una doppia lettura alla Camera, prendete il peso che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha assunto nelle diverse fasi della discussione: alla sua assenza nell’annuncio della riforma del gennaio 2014 scritto da Renzi in persona e alla sua difesa da parte dello stesso Premier dagli attacchi di Alfano in agosto si contrappone la soppressione sostanziale progettata in autunno e oggi realizzata. In una prospettiva più ampia, che cosa cambia rispetto ad esempio ai continui stravolgimenti della riforma della legge elettorale o alle «manine» che hanno provato a modificare in un Consiglio dei Ministri la riforma fiscale, oggi messa in standby?
L’«ANNUNCITE».
L’incertezza del contenuto reale del Jobs Act si lega a un’altra caratteristica di questi primi 12 mesi dell’Esecutivo, quella dei proclami continui, meglio nota come «annuncite». Oltre al coinvolgimento o meno dell’articolo 18, si pensi alla tempistica dell’approvazione che, annunciata per marzo 2014, è arrivata con un anno di ritardo: se si considerano anche gli interventi promessi sulla prescrizione e sulla corruzione (entrambi ancora in alto mare) e, da ultimo, il nuovo calendario delle riforme comunicato agli iscritti del Pd a gennaio (basato di nuovo sullo slogan «una riforma al mese»), emerge chiaramente come, nonostante le smentite dell’interessato, l’«annuncite» debba essere considerata l’architrave della politica di Renzi.
LA POTENZA DELLA COMUNICAZIONE.
La centralità di questo fenomeno è confermata dall’analisi del linguaggio utilizzato in questi 12 mesi: la predilezione per i 140 caratteri di Twitter e, più in generale, per l’utilizzo quasi compulsivo delle nuove tecnologie rivela la volontà di ampliare il consenso attraverso la continua semplificazione e ripetizione dei messaggi politici. La riduzione di qualsiasi critica alla celebre categoria dei «gufi» e – per tornare al Jobs Act – la comparazione tra le critiche all’impianto legislativo e l’inserimento di un gettone nell’iPhone rendono manifesta questa strategia comunicativa: rendendo a prima vista più chiaro il quadro generale e riducendo a due le possibilità di scelta, la trasformazione di qualsiasi dibattito in uno scontro tra Bene e Male (o tra presunti «rottamatori» e «rottamati»), semplificandogli surrettiziamente il compito, ha chiaramente l’obiettivo di raggiungere quanti più elettori possibili.
Unita all’uso sapiente delle parole, tale tecnica consente di provare a far passare qualsiasi messaggio. All’abolizione dell’articolo 18 e al conseguente incremento della possibilità di licenziamento per le aziende, per esempio, nelle discussioni di questi mesi è sempre stata contrapposta l’introduzione del «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti»: peccato che la nozione stessa di «tutele crescenti» (il solo aumento degli indennizzi in caso di licenziamento) contraddica a priori il concetto stesso di «contratto a tempo indeterminato», che nella realtà non esisterà più.
I paradossi che vengono a galla non appena si comincia a grattare sotto il motto di turno risultano ancor più evidenti se si prende la dichiarazione del vicesegretario del Pd, Debora Serracchiani, secondo la quale «il Jobs act è una riforma di sinistra». Non importa se, come peraltro lei stessa ha rilevato e rivendicato, «anche Alfano ne dice bene» e se, come dimostrato da Il Fatto Quotidiano, ampi stralci del testo definitivo erano già presenti nelle «Proposte per il mercato del lavoro» avanzate da Confindustria a maggio scorso: l’importante è solo ripetere lo slogan.
L’ALLERGIA AL CONFRONTO.
L’ultimo tassello del mosaico relativo al primo anno di Governo Renzi è dato dal rifiuto di qualsiasi tipo di discussione, non solo di quelle polemiche. Rispetto al Jobs Act basta considerare il mancato confronto coi sindacati (convocati dal Ministro Poletti solo dopo l’approvazione della legge in Parlamento e lo sciopero generale e senza alcuna possibilità di trattare) e il respingimento dei pochi aggiustamenti dei decreti attuativi suggeriti dalle Commissioni parlamentari competenti (che avevano invitato a eliminare l’equiparazione tra licenziamenti singoli e collettivi): per quanto legittimo, tale comportamento non è certo andato nella direzione della distensione dei rapporti tra le parti a parole tanto invocata.
Il discorso è il medesimo se si pensa, in conclusione, alle parole riservate domenica da Renzi al segretario della Fiom, sempre più leader politico: alle critiche alla riforma avanzate da Landini, in particolare sulla possibilità per le aziende di declassare i dipendenti, Renzi ha replicato dicendo che «non è [lui] ad abbandonare il sindacato, ma il sindacato ad abbandonare», perché «il progetto Marchionne sta partendo, la Fiat sta tornando […] a fare le macchine». Al di là delle mancate risposte nel merito e dell’eleganza dimostrata dal vincitore nell’umiliare il vinto, resta da capire se colui che ha pronunciato queste frasi sia lo stesso Renzi che, nel 2012, diceva di Marchionne che, «qualsiasi risultato abbia ottenuto e otterrà, avrà questa macchia di aver preso in giro lavoratori e politici dicendo una cosa che non avrebbe fatto». Il riferimento andava al progetto della Fiat denominato «Fabbrica Italia» che, in cambio della riformulazione dei contratti di lavoro, prevedeva un investimento, nel solo Belpaese, pari a 20 miliardi: ora che la Fiat, nonostante le vittorie in tutte le vertenze sindacali, non solo non ha sborsato neanche lontanamente quella cifra, ma addirittura non è più italiana, Landini sarebbe stato sconfitto da Marchionne? Sì, nel mondo renziano è possibile affermare anche questo.
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