Il punto sulla Trattativa: l’assoluzione di Mannino
Ma ha davvero ragione chi (come Il Giornale e Il Foglio, ma non solo) vede nell’assoluzione di Calogero Mannino il De profundis sull’inchiesta riguardante la trattativa Stato-mafia? Sì, se superficialmente ci si ferma alla sostanza della sentenza; no, se si va oltre a essa, entrando nei dettagli.
IL RUOLO DI MANNINO SECONDO L’ACCUSA.
Sulla carta, il proscioglimento potrebbe effettivamente screditare l’intera ricostruzione dei pm di Palermo. Secondo i magistrati, infatti, l’ex ministro democristiano ricopre un ruolo centrale nel negoziato che sarebbe iniziato nel ’92, non tanto per fermare le stragi che insanguinarono l’Italia a partire dalla strage di Capaci, quanto per interrompere la vendetta di Cosa nostra contro i propri politici di riferimento che non intervennero per bloccare il cosiddetto «maxiprocesso», il più grande procedimento giudiziario mai istituito contro la mafia.
Come riportato ad esempio nella memoria a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio della procura (pp. 3, 16-17 e 21) e nel decreto del giudice delle indagini preliminari Piergiorgio Morosini che, il 7 marzo 2013, ha sancito la necessità dell’intervento di un tribunale (pp. 15-18), dopo il primo omicidio politico da ascrivere alla ritorsione mafiosa, quello di Salvo Lima del 12 marzo ’92, Mannino avrebbe conferito ai carabinieri del Ros (e in particolare ad Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno) l’incarico di trovare un accordo con Cosa nostra per il timore di essere a sua volta nel mirino degli uomini di Totò Riina.
L’assoluzione di mercoledì si inserisce in questo quadro accusatorio ed è per questo che, secondo molti, se Mannino è stato prosciolto dall’accusa di aver dato il via alla minaccia alle istituzioni dello Stato (questo è il corrispettivo della trattativa nel codice penale individuato dalla procura), deve venire meno anche l’idea stessa dell’esistenza di un accordo tra Stato e mafia. Peccato però che su questo rapporto di causa-effetto si possa dire tutto, ma non che sia effettivamente dimostrato.
I DIVERSI FILONI DELL’INCHIESTA.
Innanzitutto, perché la sentenza è solo il primo esito giudiziario dell’indagine condotta dai pm palermitani. Checché ne dica Mannino, infatti, il suo «incubo» non può considerarsi finito: alcuni componenti del pool, senza attendere di leggere le motivazioni che verranno depositate entro 90 giorni (e perciò obiettivamente in modo inusuale), hanno già dichiarato che faranno ricorso in appello.
Più in generale, inoltre, si deve ricordare che il processo all’esponente della Democrazia cristiana rappresenta solo uno dei quattro tronconi in cui l’inchiesta è stata divisa, peraltro il minore se non si considerano i due relativi alla posizione di Bernardo Provenzano (che è valutata in un processo ad hoc per le sue precarie condizioni di salute) e al ruolo dei servizi segreti (ancora una semplice indagine). Con il rito abbreviato, Mannino ha saltato la fase dibattimentale, fatto che, oltre a depotenziare oggettivamente le armi dell’accusa, gli ha permesso di scindere la sua sorte da quella degli altri dieci imputati al centro dell’ultimo procedimento giudiziario, il principale, basato sul rito ordinario e ancora oggi lontano dalla prima sentenza, come ricordato polemicamente da un’altra delle parti in causa, Nicola Mancino (che non risponde di minaccia a corpo dello Stato, ma di falsa testimonianza).
La circostanza è fondamentale nella valutazione della sentenza su Mannino: più processi scaturiti dalla stessa indagine, infatti, possono giungere a conclusioni anche piuttosto distanti tra loro. Recentemente ce lo ha ricordato il caso dell’assassinio di Meredith Kercher: Raffaele Sollecito e Amanda Knox sono stati assolti definitivamente dopo il dibattimento nonostante Rudy Guede, il solo altro imputato, col rito abbreviato fosse stato condannato in precedenza per concorso in omicidio.
LA SENTENZA: L’INSUFFICIENZA PROBATORIA.
Che l’assoluzione di Mannino al momento non implichi in alcun modo il crollo dell’intero impianto accusatorio è dimostrabile ancora meglio da un altro punto di vista. L’imputato infatti è stato assolto «per non avere commesso il fatto»: si tratta della formula contenuta nel secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura penale, utilizzato solo quando la prova «manca, è insufficiente o è contraddittoria». Come già spiegato, tra gli altri, da Liana Milella su La Repubblica, con questa formula il giudice Marina Petruzzella ha dunque escluso sia che «il fatto non sussiste», sia che «esso non costituisce reato» (comma 1 del medesimo articolo).
Dunque, andando oltre il semplice pronunciamento dell’assoluzione, rispetto alla realtà che ci è stata spesso descritta in questi giorni, è vero l’esatto contrario: anche senza le motivazioni si può già dedurre che, dopo il gup Morosini che ha dato il via al processo, un altro magistrato ha sostenuto che la trattativa è esistita e deve essere considerata un reato. Rispetto all’impianto dei pm di Palermo (basato anche, va ricordato, sulle pp. 510-513 delle motivazioni della sentenza con cui nel 2011 la corte di assise di Firenze aveva condannato per le stragi del ’93 Francesco Tagliavia, ancora in attesa di un giudizio definitivo), Petruzzella ha ritenuto insufficientemente provato solo il coinvolgimento di Mannino.
Chi non riesce a fare questa considerazione e dimentica che si è solo all’inizio dei processi, o ignora le basi giuridiche o, peggio, è in malafede: in entrambi i casi, data la gravità del tema al centro dell’inchiesta (lo Stato tra il ’92 e il ’93 ha difeso i suoi cittadini o si è messo d’accordo con chi ha ucciso Falcone e Borsellino, le loro scorte e altri 21 cittadini italiani inermi?), sarebbe meglio se rispettasse un religioso silenzio.
Post scriptum. In un Paese al rovescio come il nostro è normale che trovino spazio sui giornali soprattutto le lamentele di Mannino, richiamato sul banco degli imputati dall’astiosa procura di Palermo nonostante l’assoluzione definitiva del 2010 dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa che pendeva sul suo capo dal ’94. Si lasci pure in disparte la testimonianza di Sandra Amurri, la giornalista de Il Fatto Quotidiano che sostiene di aver sentito nel 2012 il politico confessare che sì, il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, il super-teste della trattativa (imputato a sua volta nello stesso processo per concorso esterno e a Caltanissetta per le calunnie inserite nel suo racconto sul ’92), ha complessivamente riferito ai pm la verità: per rendere l’idea della verginità di Mannino è sufficiente ricordare che la stessa giustizia che lo ha assolto gli ha anche negato il risarcimento per la detenzione di 23 mesi patita tra il ’95 e il ’97 in carcere e ai domiciliari a seguito della prima inchiesta, già incentrata sulle sue liaisons dangereuses siciliane. Non gli è stato riconosciuto per i «rapporti consapevolmente intrattenuti […] con il mafioso [Antonio] Vella per motivi elettorali e [per] avere, in particolare, accettato che costui divenisse un suo procacciatore di voti». Perché, sia chiaro, Mannino i patti con Cosa nostra non sa proprio cosa siano…
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