Illegittimità di una morte


Nel mondo obnubilato da crisi economica, terrore recessione, borse impazzite e debiti pubblici che continuano a crescere anziché diminuire e lasciare quantomeno uno sprazzo di respiro ai cittadini onesti e paganti delle tasse – fino all’ultimo centesimo – non c’è spazio per altro. L’altro è un mondo parallelo che non comprende crisi economica e non comprende nemmeno paura e terrore. Agisce e basta e lo fa nel peggiore dei modi. In questo ambiente nessuno sembra troppo considerare la bassezza alla quale lo stato arriva, ma del resto nemmeno i cittadini stessi sembrano troppo preoccuparsene: anzi, preferiscono sostenere tutto ciò con la fasulla credenza di considerarsi più sicuri dentro le loro case.
Sto parlando della pena di morte, e non di un fatto dimenticabile o eliminabile come concetto di discussione. Sto parlando di un qualcosa che uccide, denigra e umilia il condannato fino a farne perdere le proprie tracce per poi ucciderlo in silenzio con la tacita complicità dei media.
Il mondo però dell’esecuzione capitale si suddivide in tre principali categorie: quella dei sostenitori accaniti, coloro che sono sempre disposti a sfoderare la spada e mettere al pubblico patibolo qualcheduno anche solo avvicinato da sospetti d’accusa; quello dei riluttanti che mostrano ritrosia verso essa, appellandosi a ben alti concetti morali e al proprio stato di coscienza; infine resta come terza categoria quella dei dubbiosi, ovvero coloro che nonostante non si ritengano favorevoli alla pena capitale la invocano in caso di omicidi di particolare efferatezza.

Chi è il condannato?

Il condannato prima di tutto è un uomo, un uomo come tanti con le sue debolezze, ignaro del fatto che queste verranno usate come armi contro di lui. Ha ucciso – e questo è vero – ma per la maggior parte delle volte ha ucciso senza particolare efferatezza. La legge americana cita esplicitamente che per essere condannati alla pena capitale bisogna che il reato sia considerato di prima grado, ovvero con la premeditazione. In molti non la hanno, per il semplice fatto che non premeditavano affatto di uccidere qualcheduno. Nel processo ciò non è un problema, si crea un quadro accusatorio ad hoc e si infila il futuro condannato dentro di esso, trovandosi in una realtà distorta che non gli appartiene. Ogni singolo movimento, ogni singola parola, ogni singolo gesto serve per alimentare la figura del mostro, dell’assassino senza scrupoli, aggiungendo di volta in volta maggiori particolari racapriccianti.
Richard Michael Rossi era un condannato detenuto nel carcere di Florence, Arizona. Esso è stato condannato alla pena capitale perché trentanni fa in preda alla voglia smodata di cocaina che gli causava una seria tossicodipendenza decise di vendere la sua preziosa macchina da scrivere. Trovato un acqurente si diresse verso casa sua per concludere l’affare. Al momento però dell’incontro, il compratore dimezzò drasticamente il prezzo precedentemente concordato approfittando delle sue condizioni precarie. Ne nacque una lite durante la quale Richard Michael Rossi estrasse una pistola e sparò all’uomo uccidendolo. Nel fuggire poi si imposessò di un fascio di banconote presenti sul tavolo e sparò colpendo di striscio anche la vicina accorsa dopo aver udito i rumori.
Tutto questo sotto l’effetto di droga e di una tossicodipendenza insopportabile. Tutto questo senza che al processo fosse rappresentato degnamente e potesse godere di una completa conoscenza della realtà dei fatti.

Insufficenza difensiva

Il condannato visto e considerato che nella maggioranza dei casi è un tossicodipendente o un individuo dallo stile di vita disadattato, non gode di una buona situazione economica. In quasi tutti i casi in cui questo succede il futuro condannato non può permettersi un avvocato degno del suo nome e di conseguenza deve sfruttarne uno d’ufficio. L’avvocato d’ufficio però generalmente deve sostenere una mole imponente di lavoro. Ne consegue il fin troppo ovvio esito che l’avvocato d’ufficio consigli al suo “cliente” di patteggiare. Il “cliente” crede di essere in buone mani, crede addirittura di poter contare di una buona difesa e di potersi difendere in modo onesto davanti ad un giudice. Non sa invece che questa è la prassi e il fatto che si rinunci al patteggiamento rappresentà un mandato d’esecuzione emesso già in partenza.
“Al momento del processo l’imputato non sa bene cosa sta succedendo perché non conosce i reglamente processuali né le leggi in generale. Nei cinque, dieci anni successivi si ritrova a cercare di rettificare gli errori commessi durante il processo di primo grado e l’appello diretto. Quest’ultimo è un primo appello automatico, limitato alle questioni già sollevate durante il processo di primo grado. Se si trascura di sollevare tali questioni in sede di appello, ci si preclude definitivamente la possibilità di poterlo fare in seguito.”
Questo è lo stato in cui un accusato è mandato a processo, ma che succederebbe se l’accusato non fosse pienamente cosciente al momento dell’udienza?
“Nei giornii, e nelle notti, precedenti il delitto ero sempre stato sotto l’effetto di cocaina, perciò in cella entrai subito in crisi d’astinenza. Riferii allo staff medico della prigione che ero sotto trattamento con vari titpi di farmaci antipsicotici e che era necessario che mi fossero somministrati immediatamente. Lo fecero. […] il problema sorse quando al processo mi ritrovai sotto l’effetto sedativo di dosi abbondanti di Torazina, Artane e Elavil. Non avevo idea di quale fosse la linea difensiva adottata in mio favore. Non potevo partecipare alla mia difesa, il che è, o dovrebbe essere un punto fondamentale per chiunque. La legge stabilisce che, allo scopo di avere un processo equo, l’imputato debba sapere cosa succede. Fisicamente ero presente ma mentalmente ero uno zombie.”
Nessuno però ha saputo muovere un’ eccezione a riguardo. Il suo legale, che avrebbe avuto il compito di indirizzare una difesa preferì invece non portare nessuna testimonianza e nessun documento a testimonianza di quanto l’uso di sostanze stupefacenti alterino la percezione e la coscienza della realtà. Niente di niente, come se Rossi fosse stato cacciato con forza verso quella porta sotto il plauso di tutti.

Atrezzi della morte

Nel 1972 la pena di morte in america era stata abolita perché in contrasto con i principi costituzionali che impedivano ad un individuo condannato alla pena capitale di morire soffrendo. La morte deve essere indolore e la più serena possibile. Nel 1976 – a furor di popolo e dopo una sentenza della Corte Suprema – è  stata reintrodotta cambiando il minimo indispensabile per farla sembrare accettabile e ottenere il consenso. Stati americani vari, subito si impegnarono a rimettere in funzione a pieno ritmo il boia per guadagnare i tempi perduti.
Ma davvero ora le attuali metodologie di morte sono indolore?
Dopo la sua reintroduzione si usava senza troppe remore e preoccupazione la sedia elettrica. La sua sicurezza però era stata messa a dura prova, e sulla sua incapacità di provocare dolore in molti si erano posti il dubbio. E’ eloquente che la sedia elettrica già di per sé provochi un profondo senso d’angoscia. Il condannato viene fatto sedere e gli vengono applicati degli elettrodi inumiditi alla testa e al polpaccio. Esso muore sotto scariche inumane, sotto visibili convulsioni e spasmi. Talvolta – e questo va ad avvalorare ancor più la tesi della disumanità di questa pratica – le scariche usuali non sono abbastanza per provocare il decesso del condannato e si procede ad oltranza aumentando il voltaggio e l’orrore di quella scena.
L’iniezione letale è stata dichiarata anche dall’ex presidente Bush come più sicura e meno dolorosa. Non foss’altro però che la pratica dà veramente l’impressione della sua indolorosità.
L’iniezione letale in parte ricorda il processo d’anestetizzazione pre operatoria. Al condannato vengono provocati tre fori, direttamente sulla vena per inserire gli aghi. Questa procedura però in alcuni casi ha rappresentato una forma di sdegno e ha riaperto la diatriba sulla sua costituzionalità. “[…] per procedere all’esecuzione, gli erano state praticate con un bisturi incisioni su entrambe le gambe per inserire gli aghi necessari a iniettargli il veleno e ucciderlo. Il dolore e la sofferenza non sono a tutt’oggi stati riconosciuti dal Dipartimento carcerario. Quando fu aperta la tenda […], il condannato era già legato al lettino e coperto con un lenzuolo, cosicchè nessuno potè vedere i tagli che gli erano stati praticati.”
Si procede poi con l’iniezione dei tre veleni: Tiopental sodico, un sedativo somministrato in dose letale; pancuronio bromuro, un rilassante muscolare atto a paralizzare il diaframma e far cessare l’attività polmonare e cloruro di potassio, per bloccare il battito cardiaco.
Il fatto però che venga somministrato il pancuronio bromuro dovrebbe far riflettere. E’ appunto un rilassante muscolare, ma “il soggetto che lo assume apparentemente è tranquillo, quando in realtà sta provando il travaglio straziante della morte per iniezione letale”. Il condannato sta soffrendo la morte per soffocamente ma non può comunicarlo, per il semplice fatto che non riesce a comunicare per la paralisi muscolare. Tutto questo mentre i testimoni affermano che il condannato era tranquillo e che la sua morte è stata indolore.
Sempre stando alla presunta indole di indolorosità della pena di morte, in america in alcuni stati – per fortuna pochi – si pratica ancora la camera a gas. La storia ci ha insegnato come questa pratica rappresenti il massimo scempio possibile e tutto l’orrore che la circonda dovrebbe aver almeno smosso alcune coscenze. Ciò purtroppo non è successo ed è tuttora ancora attiva.
Nel metodo d’esecuzione il condannato viene legato a una sedia in una camera stagna. Monitorato tramite stetoscopio e collegato a delle cuffie che si trovano nella stanza adiacente, l’esecuzione avviene per la sommistrazione mediante un tubo, di una pastiglia di cianuro. Essa verrà posata sotto la sedia del condannato, dove si scontrerà con acido solforico provocando la reazione chimica. La morte sopraggiunge per asfissia, dopo immani sofferenze causate dalle violente convulsioni. Tecnicamente la morte sopraggiunge dopo 8 – 10 minuti ma in taluni casi in cui il condannato trattenni il respiro o compia leggeri sospiri l’agonia potrebbe ulteriormente prolungarsi.
Tutto questo in una stanza con una grossa vetrata dove dall’altra parte comodamente seduto qualcuno si sta godendo lo spettacolo.

Testimoni

La brutalità della morte attira spasmodicamente milioni di persone. E’ un circolo vizioso che crea audience e audience crea soldi. La morte mostrata nella sua interezza, senta tagli attira e l’aspetto tristemente negativo è che ciò serve ancor più ad alimetare la foga dei media contro il condannato.
Nell’iter esecutivo la procedura si svolge in una stanza chiusa separata da una vetrata. Dall’altra parte sono poste delle sedie ove i familiari della vittima del reato commesso dal condannato, il legale del condannato e alcuni giornalisti possono starsene lì ad ammirare il macabro spettacolo. Inoltre se lo vuole, il condannato stesso può designare cinque persone di sua fiducia per sedersi in prima fila, come al cinema purtroppo. Le cinque persone designate però devono essere state precedentemente inserite lungo il percorso di prigionia, nella lista dei numei telefonici al quale era stato dato diritto al condannato di chiamare e nella lista delle visite autorizzate. Se per ipotesi il condannato non avesse avuto nessuno da chiamare o da vedere, e quindi non avesse inserito nessun nome nella lista non avrebbe potuto avere nessuno a testimonianza della sua morte.
Questo è fatto più che altro per alimentare i bisogni di vendetta dei familiari della vittima; alimenta il suo non perdono, e il fatto di vedere l’aguzzino delle loro figlie o dei loro padri morto avvalora la loro situazione. Sono in molti – gli psichiatri – che descrivono apertamente questa situazione. I famigliari delle vitittime passano tutti gli anni ad aspettare la morte della causa del loro dolore, sapendo che non lo perdoneranno mai, ma aumentando in loro tutto l’odio possibile. In punto di morte raggiungono quella che è per loro l’apoteosi della vendetta, ma poi una volta che il boia slega il corpo defunto del condannato e dichiara lo spettacolo finito ritornano alle loro vite sentendosi un vuoto enorme dentro e una depressione che nessuna condanna a morte potrà mai sanare.
Il vetro che sta a dividere la vita dalla morte è molto significativo, non foss’altro anche per il fatto che in molti vorrebbero trasformarlo in qualcosa di più. Per esempio la rete televisiva di San Francisco, la KQED spiazza tutti chiedendo l’autorizzazione a trasmettere in diretta le fasi dell’esecuzione di Harris – condannato a morte e incarcerato presso il carcere di San Quintino in California, giustiziato poi nel 1992 – nella camera a gas. La richiesta è motivata dal direttore Schwartz che spiega come «la KQED non intende prendere nessuna posizione sulla pena di morte, il nostro lavoro consiste solo nel far sapere alla gente cosa accade nel mondo e in particolare cosa fa il governo a nostro nome. Giustiziare un condannato è l’atto di maggior potere che un governo possa esercitare su un individuo, e ci sembra non solo di avere il diritto di documentarlo, ma di averne anche il dovere». Sta di fatto che la richiesta non è andata a buon fine costringendo i giornalisti ad armarsi ancora di penne e taccuini per appuntare gli ultimi istanti del condannato, visto che hanno l’impedimento di portare qualsiasi oggetto atto a registrare in modalità video o audio. Ma c’è da giurarci che se ne avessero la possibilità non esiterebbero un attimo a servirsi della morte come proprio piacere.

Ribasso del crimine?

Troppo spesso l’utilizzo della pena di morte è motivato col fatto che questo sia un deterrente per reati futuri, che un possibile commettitore di omicidio si senta condizionato psicologicamente. Questo se non fosse reale sarebbe quanto meno ridicolo, e lo è.
Come detto in precedenza i condannati per la maggiore sono tossicodipendenti naviganti in cattive acque economiche o peggio ancora con gravi disturbi mentali e della personalità. L’omicidio stesso è qualcosa di non premeditabile, ma nella maggioranza dei casi agisce sotto impulsi improvvisi di rabbia, desiderio, astinenza, invidia. L’omicidio è qualcosa di non organizzabile e l’omicida non starebbe certo a pensare ai possibili rischi nel commettere il suo reato ma lo commette e basta.
La verità di queste esecuzioni sta nel fatto che sono in molti i governatori a proclamare nelle loro campagne elettorali la “durezza contro il crimine” aizzando folle e provocando in loro speranze e false idee. Il condannato viene proclamato come un mostro e quindi si dichiara giusta e consona la sua morte anche – e soprattutto – per i possibili danni che potrebbe ancora provocare alla società. Ma se lo stesso ergastolo costringe il condannato ad essere privato della sua liberta costringendolo ad una segregazione in un carcere, non è altresì anche questa una modalità di prevenzione dei rischi per la società? Dove sta il bisogno convulso di ricorrere alla pena di morte?
In Georgia – complice anche i risolvi storici – la pena di morte è divenuta una dei principali argomenti di discussione e di approvvigionamento di voti. La pratica disumana è risaputa e a ciò si deve ad aggiungere la correlante razziale. Dal 1982 al 1988 la percentuale della “razza” dei condannati era la seguente: 42% nera, 47% bianca, 8% ispanica e 3% asiatica. Il rapporto imputato bianco/vittima nera: 8; imputato nero/vittima bianca:120.
A tutto ciò poi si devono anche aggiungere certe argomentazioni discordanti. Leggendo per esempio il Catechismo della Chiesa Cattolica si può tranquillamente leggere come “l’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani.” Ciò sta a significare che la Chiesa – premesso il fatto che si debba accertare senza ragionevole dubbio alcuno la colpevolezza dell’imputato – non esclude la pena di morte. Ciò pero sta anche a significare che ci debba essere una colpa che merita la pena di morte, una colpa talmente grande per cui lo Stato stesso ha il diritto di sopprimere l’accusato. Ciò però è irrealizzabile per il semplice fatto che uno Stato non si trova mai nel bisogno di sopprimere un condannato perché la semplice reclusione a vita costituisce una sana protezione di altre vite umane. Questo è quantomeno contradditorio per il fatto che il Vaticano  – promotore della non violenza e della non necessità della pena capitale – abbia nel suo principale manuale di dottrina una simile ammissione così esplicità.
Forse per la maggior parte dei sostenitori di ciò gira la credenza esplicita che un omicida debba essere ripagato con la stessa medaglia, ma se omicidio genera omicidio non è peggio che l’uccisione di persone innocenti?

Matteo Maistrello

matteo.maistrello@yahoo.it

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