Speciale Banda della Magliana e fenomeno del pentitismo: intervista al magistrato Otello Lupacchini

Può dirmi quale ruolo ricopre all’interno del sistema giudiziario?

Mi sono laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bologna, nel giugno 1975, con il massimo dei voti e la lode; ho esercitato per alcuni anni l’attività forense in Cortina d’Ampezzo  e dal 1979 sono in magistratura. Dopo l’uditorato svolto principalmente a Roma, ho esercitato funzioni di Pretore presso la Pretura mandamentale di Riesi (CL); trasferito al Tribunale Ordinario di Bologna, nel 1982, vi ho svolto funzioni di giudice in Collegi penali e di Corte d’Assise; dal settembre 1988 al luglio 2002, presso il Tribunale di Roma, ho esercitato funzioni di giudice civile (dal settembre 1988 al settembre 1989), di giudice istruttore penale addetto all’Ufficio Istruzione “stralcio” (dal dicembre 1989 sino al luglio 2002), di giudice penale dibattimentale e della Sezione per il riesame dei provvedimenti sulla libertà personale e per l’applicazione delle misure di prevenzione (fino al 1996); dal 1996 al luglio 2002 ho svolto funzioni di giudice per le indagini preliminari; a decorrere dal 18 luglio 2002, sono stato collocato fuori dal ruolo organico, in quanto nominato Ispettore Generale Capo del Ministero della Giustizia; dal luglio 2008 sono Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma.

So che lei si è occupato di numerose inchieste, note all’opinione pubblica.

Nel corso della mia attività professionale ho trattato, fra i moltissimi altri, i processi relativi: all’omicidio del sostituto procuratore romano dott. Mario Amato; alla strage alla Stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980; al c.d. Golpe Borghese; alla strage di via Fani e all’omicidio di Aldo Moro (c.d. processo Moro-ter); al c.d. Supersismi; alla c.d. strage di Natale del 1984;  alla c.d. Armata Rossa Giapponese (J.R.A.); all’omicidio del professor Massimo D’Antona; all’omicidio di Roberto Calvi; ho così avuto modo di ricostruire i nessi tra organizzazioni criminali di tipo mafioso, fra loro e con il terrorismo di destra e di sinistra, i servizi segreti ed i centri di potere controllati da logge massoniche coperte, che vivevano grasse, incistate nei gangli vitali dello Stato, mettendo a serio rischio la democrazia; di ricostruire, altresì, l’apporto dato dai c.d. servizi di sicurezza deviati, sia italiani sia stranieri, all’ascesa ed al radicamento della criminalità organizzata di stampo mafioso, in Italia, ma anche all’estero, così in Francia come in Spagna, utilizzandola, in uno con movimenti indipendentisti ed altre organizzazioni dichiaratamente terroristiche, in operazioni di destabilizzazione sia politica sia economico-finanziaria. Ho avuto occasione, per altro, di mettere a frutto le conoscenze, coltivate anche a livello scientifico, in materia di criminalità economica e degli affari (societaria e fallimentare, valutaria, tributaria e finanziaria), specie nelle sue articolazioni finalizzate al riciclaggio di denaro d’illecita provenienza ed al finanziamento delle attività criminali del terrorismo, così interno come internazionale; nonché in materia di diritto penale internazionale e delle relazioni internazionali.

Mi vorrei soffermare – in particolare – su un periodo storico: siamo negli anni 70/80, quando Roma si è trovata alla ribalta della cronaca a causa della criminalità organizzata. In quegli anni la Capitale – per tutta una serie di ragioni (che spero vorrà chiarire!) – diventa “proprietà”, “territorio”, di una banda di delinquenti. Mi riferisco, naturalmente alla Banda della Magliana.

L’Italia era allora un Paese sporco di sangue, il Paese delle « stragi di Stato » e degli attentati, dei servizi segreti deviati e dei colpi di Stato annunciati, dei delitti politici e di una nuova efferata criminalità di persone serie, normali e medie; era il Paese del « caso Spagnuolo », simbolo e importante anello nel decadimento delle istituzioni repubblicane, coinvolgente, in vario modo, le indagini sulle « aste truccate dell’Anas », sui fondi segreti della Montedison, sullo scandalo delle intercettazioni telefoniche e delle infiltrazioni mafiose nella Capitale. Era, insomma, il Paese in grado di metabolizzare anche i peggiori sospetti di collusione fra i più noti poliziotti e magistrati e i più famigerati mafiosi. Per colpa di un ceto politico incapace e meschino – « Un nulla ideologico mafioso », secondo la lapidaria definizione che ne diede Pier Paolo Pasolini – lo sviluppo economico si era subito dissociato dal progresso culturale e civile; chi viveva nel Palazzo della politica o guardava soltanto a ciò che accadeva al suo interno, credeva che la Storia fosse lì, e non si accorgeva che nulla era più come prima: la gioventù italiana non esisteva più, era stata deturpata e distrutta da un Nuovo Potere che aveva bisogno di una nuova umanità, di adoratori di un benessere nichilistico e di una cieca religione del consumo. Fu allora – quando ormai il capitalismo aveva fatto la sua rivoluzione, usando cattolici e laici, democristiani e comunisti, nessuno dei quali vedeva che l’irreparabile era già avvenuto – che si registrò, a livello nazionale, la tendenza dei sodalizi criminali più ambiziosi ad omologarsi ad un modello organizzativo e strategico, in grado di disporre di squadre armate; di controllare il territorio; di accumulare ricchezze con un ritmo inimmaginabile in qualsiasi mercato legale; di mantenere alte possibilità di restare impuniti; di acquisire, attraverso la disponibilità d’ingenti risorse finanziarie, legittimazione nella società civile; di guadagnare, quindi, una rispettabilità tale da consentire l’avviamento di relazioni nel mondo degli affari e in quello della politica. La mancata riconversione a questo modello condannava ogni sodalizio delinquentesco a rimanere relegato a ruoli serventi o, comunque, a restare confinato nei mercati illegali meno redditizi. Quindi anche la criminalità romana fu costretta a riorganizzarsi.

Intorno al 1975, mentre Raffaele Cutolo (qui accanto nella foto ndr) – il quale, almeno a quel tempo, non era ancora noto come lo sarebbe divenuto in seguito – si adoperava per mettere in piedi un’organizzazione criminale intenzionata ad escludere dal napoletano infiltrazioni di altre organizzazioni di diversa estrazione territoriale, all’interno del carcere «Regina Coeli», alcuni detenuti «romani», fra i quali Antonio Mancini, accarezzavano anch’essi l’idea di tentare analoga operazione su Roma. Qui gli elementi più rappresentativi della malavita locale erano geneticamente incapaci di mantener fede ai patti, condizione imprescindibile per dar vita a sodalizi stabili, dunque forti e perciò capaci di affermarsi all’esterno. Tiravano avanti, così, fra un «tradimento» e l’altro, una «guerra» e l’altra, dedicandosi ai furti, alle rapine ed alle estorsioni, mentre, di fatto, elementi stranieri, come, ad esempio, i Marsigliesi, ma anche calabresi, pugliesi e addirittura ciociari – si pensi alla banda di Laudavino De Santis, detto «Lallo lo zoppo» –, gestivano gli affari più lucrosi, dal traffico degli stupefacenti ai sequestri di persona.

Una volta presa coscienza, tuttavia, della forza derivante dal vincolo associativo, fu agevole per i «romani» riappropriarsi di tutti i commerci criminali, così da abbandonare per sempre il ruolo marginale al quale erano stati relegati in precedenza.

Nei quartieri della Capitale, occorrevano fiumi di eroina, da immettere nel corpo sociale attraverso un ineluttabile travaso di sangue. Erano, quindi, necessari, «amministratori» del territorio, capaci di dispensare morte con fredda determinazione ed efficienza da contabili, ma anche «manovali» per azioni inconfessabili. Grazie ai talenti ed all’ambizione dei sodali, i quali non rifuggivano dal ricercare l’appoggio anche di elementi  esterni, che lavorassero per loro, fu rapida ed inesorabile la trasformazione della banda in un’intrapresa criminale ampia e dagli scopi sociali sommamente articolati.

Sarebbe, per ciò, miope e riduttivo circoscrivere al settore del traffico degli stupefacenti gli interessi criminali della consorteria, quantunque esso fosse senz’altro un settore strategico di primaria importanza. La gestione, nell’Urbe, del mercato della droga, oltre tutto in regime di sostanziale monopolio, a seguito della violenta estromissione dei possibili concorrenti, rappresentò per la banda, innanzi tutto, un’irripetibile opportunità d’intessere « relazioni » paritarie con altri sodalizi criminali di prima grandezza, nel panorama nazionale. In particolare, tramite Claudio Sicilia e Nicolino Selis, la banda entrò in rapporti con i trafficanti napoletani. Enrico De Pedis e Danilo Abbruciati apportarono un nuovo canale di approvvigionamento: quello «siciliano», di Stefano Bontade. Non solo, ma la disponibilità d’un’ingente massa di liquidità, provento dei traffici criminali, offrì alla banda l’occasione di acquisire il sostanziale controllo del mercato dell’usura e, al tempo stesso, consentì spregiudicate scorrerie in settori dell’economia legale che meglio e più di altri si prestavano a remunerative operazioni di riciclaggio e reinvestimento dei capitali d’illecita provenienza.

Proprio il rapporto intessuto da alcuni dei componenti della banda con i grossi imprenditori del cosiddetto « prestito a strozzo », fu, ad un tempo, sia strumento – a dire il vero, non l’unico – mediante il quale attuare il progetto « dalle borgate alle stelle », nel quale si traducevano il desiderio di  una vita ai piani alti e l’ansia di riscatto degli adepti del sodalizio delinquentesco, ma anche l’elemento dissolutore della stessa holding criminale.

Detto questo, tuttavia, non va neppure trascurata la fittissima rete, intessuta dalla banda, di collegamenti, complicità, coperture ed agganci con gli ambienti più svariati, molto spesso operanti ai margini o al di là dei limiti della legalità, alla quale sono riconducibili anche i rapporti operativi con ambienti eversivi di estrema destra, che, a Roma, poterono prosperare anche, se non proprio, grazie alle complicità ed agli aiuti – non soltanto economici, ma concretatisi pure in forniture di armi, rifugi, documenti d’identità contraffatti ed altro – di quella consorteria criminale.

Per ciò che attiene, poi, all’impiego feroce e determinato di ogni tipo di violenza ed intimidazione, per quanto efferata potesse essere, mi limiterò, per il momento, semplicemente a ricordare il sequestro – avvenuto il 7 novembre 1977 – e la successiva morte del marchese Massimiliano Grazioli Lante della Rovere; l’omicidio di Franco Nicolini, detto «Franchino er Criminale», commesso il 2 luglio del 1978, e quello di Sergio Carrozzi, attuato il 28 agosto dello stesso anno; il tentato omicidio di Giovanni Piarulli, il 16 agosto 1979; l’omicidio di Amleto Fabiani, perpetrato il 15 aprile 1980; il tentato duplice omicidio in danno di Pierluigi Parente e Maria Nicoletta Marchesi, il 19 settembre 1980; il tentato omicidio di Enrico Proietti il 27 ottobre 1980 e quello di Mario Proietti il 12 dicembre dello stesso anno; gli omicidi di Orazio Benedetti, perpetrato il 23 gennaio 1981, di Nicolino Selis e di Antonio Leccese, nella serata del 3 febbraio 1981; l’omicidio di Maurizio Proietti ed il tentato omicidio di Mario Proietti, il 16 marzo 1981; l’omicidio di Giuseppe Magliolo, consumato il 24 novembre 1981; gli omicidi di Massimo Barbieri, commesso il 18 gennaio 1982, di Claudio Vannicola, il 23 febbraio successivo,  di Fernando Proietti realizzato il 30 giugno 1982 e di Michele D’Alto, perpetrato il 30 giugno dello stesso anno; l’omicidio di Raffaello Daniele Caruso, commesso il 22 gennaio 1983, e quelli di Angelo De Angelis e di Mario Loria, consumati, rispettivamente il 10 febbraio ed il 18 settembre dello stesso anno.

Le vorrei chiedere: chi erano questi “balordi” e come hanno potuto aggregarsi fino a divenire i padroni della città di Roma?

Negli anni Settanta, nella zona dell’Alberone, si riunivano varie « batterie » di rapinatori, provenienti anche dal Testaccio. Costoro affidavano le armi a Franco Giuseppucci, il quale le custodiva all’interno di una roulotte di sua proprietà, parcheggiata al Gianicolo, che venne, però, scoperta e sequestrata dalle forze di polizia; arrestato, «er Fornaretto» –  Franco Giuseppucci era ancora incensurato, ma, in seguito, sarebbe diventato «er Negro», a riprova dell’acquisito carisma nel milieu  malavitoso che contava –, se l’era cavata con qualche mese di detenzione: la roulotte aveva un vetro rotto, non si poté, dunque, ritenere raggiunta la prova giudiziale della consapevolezza, da parte del proprietario, che all’interno fossero state nascoste delle armi.

Quelle sequestrate, probabilmente, non erano tutte le armi che .. custodiva: qualche tempo dopo la sua scarcerazione, egli patì il furto di un maggiolone Volkswagen, a bordo del quale si trovava altro « borsone » di armi, affidatogli da Enrico «Renatino» De Pedis. Armi che il ladro aveva poi ceduto ad Emilio Castelletti, il quale, già all’epoca, operava con Maurizio «Crispino» Abbatino; e proprio a quest’ultimo si rivolse « er Negro », per reclamarne la restituzione. Fu quella, per i due, l’occasione di conoscersi e di cementare, insieme anche al De Pedis, l’unione nella medesima «batteria ».

Eccoli, dunque,finalmente  insieme: Franco Giuseppucci, Maurizio Abbatino ed Enrico De Pedis. Inizialmente dedito, pressoché esclusivamente, alle rapine, il nucleo al quale avevano dato vita era stato ben presto coinvolto nel sequestro Pratesi e nel sequestro Ciriello, organizzati da altri gruppi criminali. Il primo era stato preparato da Laudavino De Santis, il quale, però, non disponeva di tutto il personale necessario all’esecuzione del piano; avrebbe dovuto essere commesso in un capannone nella zona dei Castelli, dove il Pratesi aveva una fabbrica di giocattoli; non venne, comunque, portato a termine, forse per l’inaspettata reazione della vittima. Al secondo aveva preso parte la  «batteria», ma ne era rimasto estraneo Maurizio Abbatino; temendo che potesse parlare, Vincenzo Femia, uno degli organizzatori del sequestro, l’avrebbe voluto uccidere per tale sua defezione; ma, a dire dello stesso Abbatino, era stato Raffaele «Palletta» Pernasetti, anch’egli appartenente alla batteria, a garantire per lui, salvandogli la vita. Aggregati altri partecipi e annessi altri gruppi, la  «batteria» era divenuta finalmente una «banda».

Siamo dinnanzi ad una vera e propria metamorfosi: il termine «batteria» – il cui equivalente è anche   «paranza» –  designa un nucleo delinquentesco legato da vincoli di esclusività e solidarietà, fra soggetti dediti ad attività criminali omogenee, specialmente rapine. Queste persone s’obbligano ad operare tra loro e, dunque, a non condividere, almeno tendenzialmente, le operazioni con chi non faccia parte dello stesso nucleo. La parola «banda», invece, sta ad indicare un organismo non soltanto più importante per il numero dei partecipi e per il ventaglio più ampio d’interessi criminali che coltiva, ma che si caratterizza, altresì, per i più stretti vincoli di solidarietà tra gli associati, tenuti a prendere in comune ogni decisione, senza possibilità di esimersi dall’eseguire le decisioni adottate.

Nel caso della banda della Magliana – perché di questa ormai si trattava –, proprio la necessaria collegialità delle decisioni operative e la sostanziale unanimità richiesta per la loro deliberazione, comportavano che tutti gli associati fossero ugualmente compromessi in ogni operazione e, dunque, tutti parimenti motivati ad aiutare chiunque fosse stato arrestato in flagranza di reato, o comunque catturato o soltanto incriminato, a limitare i danni processuali e ad avere la tranquillità che non sarebbe mancata l’assistenza del sodalizio né a lui né ai propri familiari. Inoltre, per garantire la massima impermeabilità della consorteria, a ciascuno degli associati incombeva l’obbligo di evitare accuratamente d’intessere stretti legami operativi con gruppi esterni, a meno che non si trattasse di collegamenti, in ogni caso, del tutto eventuali e transitori, funzionali, ma anche indispensabili all’accrescimento dei profitti ed allo sviluppo delle attività programmate; ne conseguiva che nessun estraneo avrebbe potuto venire agevolmente a conoscere i particolari delle azioni  riconducibili al nuovo sodalizio delinquentesco.

Mi potrebbe chiarire quali sono stati i rapporti effettivi tra alcuni settori finanziari vaticani (come lo IOR) e questa organizzazione criminale?

L’Istituto per le Opere Religiose (IOR) è l’Organismo finanziario vaticano – secondo la definizione che ne ha dato il cardinale Agostino Casaroli – ma non una banca nel senso comune del termine. Non ha sportelli. È il centro di una organizzazione mondiale di banche controllate dal Vaticano. I suoi bilanci sono noti solo al Papa e a tre cardinali. Creato nel 1941 da Pio XII con la funzione di amministrare i capitali degli ordini religiosi, degli istituti religiosi maschili e femminili, delle diocesi, delle parrocchie e degli organismi vaticani di tutto il mondo, annovera tra i suoi molti clienti esponenti del mondo ecclesiastico: ordini religiosi, diocesi, parrocchie, istituzioni e organismi cattolici, cardinali, vescovi e monsignori, laici con cittadinanza vaticana, diplomatici accreditati alla Santa Sede dipendenti del Vaticano e pochissime eccezioni, selezionate con criteri non conosciuti. È stato e continua ad essere molto ambito per chi possiede capitali che vuol far passare «inosservati»: molto semplice è, attraverso l’Istituto, qualsiasi trasferimento di denaro senza limiti né di quantità né di distanza, con la garanzia dell’assoluta riservatezza. Nella sua storia entrano tutte le facce dell’Italia degli intrighi. monsignor Paul Marcinkus, Michele Sindona, Roberto Calvi: questi sono solo alcuni dei nomi che nella storia finanziaria italiana hanno incrociato destini e scandali con la banca centrale del Vaticano. Ma oltre a costoro, anche faccendieri del calibro di Licio Gelli e Flavio Carboni. Il primo, « investiva il denaro dei Corleonesi di Totò Riina nella banca del Vaticano ». A dirlo è Francesco Marino Mannoia, il quale ha anche rivelato che « i soldi della mafia sono finiti per anni nelle casse dello Ior, che garantiva investimenti e discrezione » ed ha aggiunto: « Quando il Papa venne in Sicilia e pronunciò un discorso duro contro la mafia, scomunicando i mafiosi, i boss si risentirono soprattutto perché portavano i loro soldi in Vaticano. Da qui nacque la decisione di far esplodere due autobombe davanti a due chiese a Roma ». Vera o fantasiosa che sia quest’ultima parte della dichiarazione – non esistono riscontri giudiziari, in proposito –, resta il fatto che ancora una volta lo I.O.R fa la sua comparsa in cronaca, accoppiato a una trama oscura.  In ogni caso, considerati gli stretti rapporti tra la Banda della Magliana e Cosa Nostra, attraverso Stefano Bontade (legato al nucleo che potremmo dire storico, da Abbruciati ad Abbatino, Mancini, Colafigli ecc.), Pippo Calò (legato a doppio filo ai Testaccini di Enrico De Pedis) e Flavio Carboni (legato agli usurai di Campo de’ fiori, primo fra tutti Mimmo Balducci, braccio finanziario della Banda e di Cosa Nostra), non è dato escludere – sebbene non lo si possa affermare con certezza, esistessero rapporti tra la Banda della Magliana e lo IOR.

A proposito della morte di Calvi, sono stati fatti i nomi di Pippo Calò e Flavio Carboni; quest’ultimo è stato sospettato di aver venduto – ad alto prezzo – il contenuto della borsa (che Calvi aveva con sé) allo IOR. In che modo Roberto Calvi è rimasto intrappolato nella “rete” formata dai due soggetti sopra citati?

Rispondere a questa domanda implicherebbe porre delle premesse troppo articolate e, comunque, inopportune mentre è ancora in corso il processo per l’omicidio di Roberto Calvi. Mi limiterò, dunque, a concentrare il fuoco dell’attenzione sulla figura del «banchiere dagli occhi di ghiaccio», che altro non era, però, che «il tipico caso del garzone che acquista il negozio». Nel 1947, a ventisette anni, Calvi entra come impiegato semplice, al Banco Ambrosiano. Ai pochi eletti cui riserva le sue confidenze, spiega di voler trasformare l’istituto da banca regionale di beneficenza in colosso della finanza internazionale. E giura, fra l’incredulità generale, che un giorno l’Ambrosiano sarà suo. Progetti più grandi di lui: non sono suoi, come non saranno suoi i mezzi impiegati per realizzarli. È un «uomo di paglia », una « testa di legno», la pedina di un gioco enorme inventato da altri: Michele Sindona, Licio Gelli, Umberto Ortolani, i prelati vaticani, e altri uomini a mezzo servizio tra finanza e malavita organizzata. Comincia a scalare i gradini che portano ai piani alti dell’Ambrosiano fino ad acquisire, negli anni Sessanta, i galloni di segretario generale, cioè di assistente e braccio destro del direttore centrale Alessandro Canesi. Gli subentra, nel 1969, quando ascende alla direzione centrale. Intanto intreccia amicizie e rapporti altolocati, e acquista in Svizzera la Banca del Gottardo. Nel 1968 stringe i rapporti con il finanziere siciliano Michele Sindona, diventandone anche socio. Nel febbraio 1971, diventa direttore generale dell’Ambrosiano e Sindona lo mette in contatto prima con monsignor Paul Marcinkus. Entrano subito in società: fondano, alle Bahamas, la Cisalpine Overseas Bank e inaugurano una turbinosa attività nei paradisi fiscali di mezzo mondo, spesso insieme ad Umberto Ortolani. Nel 1975, è pronto per conoscere Licio Gelli. Li presenta Michele Sindona, ormai latitante negli Stati Uniti, con una telefonata al Venerabile Maestro da New York, dove è andato a trovarlo. L’affiliazione ufficiale, secondo l’antico rituale massonico, avviene a Ginevra, il 23 agosto di quell’anno. Poi Gelli lo raccomanda presso i fratelli inglesi della Loggia 901, che riunisce il fior fiore della City londinese. Nel 1976 il costruttore andreottiano Mario Genghini, anche lui nella Loggia Massonica P2, lo presenta ad Anastasio Somoza, il sanguinano dittatore del Nicaragua. È l’inizio di una proficua collaborazione fra l’Ambrosiano e i regimi militari latinoamericani. Sindona in piena disgrazia, è ormai lui l’unico banchiere di riferimento della Loggia P2 e dello I.O.R.: direttore generale dal 1971, entra nel consiglio di amministrazione e, progressivamente acquisisce il controllo della maggioranza azionaria del Banco, fino a diventarne, nel 1975, presidente. Ora comanda lui, anche se deve rendere conto ai suoi burattinai. «Il Banco Ambrosiano non è mio», confesserà ai giudici di Milano nel 1981, rinchiuso nel carcere di Lodi, « io sono soltanto al servizio di altri. Di più non posso dirvi ». Ossessionato dal segreto: «Se una cosa la conoscono due persone – è uno dei suoi motti – non è più segreta». Si dedica a costruire pezzo dopo pezzo una rete inestricabile di società estere, banche, società fiduciarie e di intermediazione, conti cifrati da Panama a Hong Kong. Le azioni passano a ritmi vorticosi dall’una all’altra società come nel più classico sistema delle scatole cinesi: continui acquisti e cessioni di pacchetti azionari per farne lievitare il valore, disperdere gli enormi capitali sporchi che cominciano a entrare nel circuito per esservi «lavati» e coprire i buchi creati da continue distrazioni di denaro per foraggiare questo o quel potente padrino. Anche, ovviamente, politico. Nel 1977 è vittima di una manovra chiaramente ricattatoria, che mira a coinvolgerlo nel disperato tentativo di Sindona di salvare le sue banche, e di convincerlo, con le buone o con le cattive, a sborsare i miliardi che gli occorrono per tappare le falle. Il ricatto cesserà qualche mese dopo, grazie all’intervento pacificatore di Licio Gelli, che porterà a un incontro fra Calvi e Sindona nel marzo 1978 a New York. Frastornato dalla lanterna magica azionata dai vari Sergio Cusani, Giuseppe Ciarrapico e Flavio Carboni, che proietta, in un crescendo di mirabolanti promesse, le immagini dei Bettino Craxi, dei Giulio Andreotti, dei Ciriaco De Mita e degli Armando Corona. Pressato dai consigli di Licio Gelli e di Umberto Ortolani. Blandito dal principe Carlo Caracciolo ed ammaliato dall’ingegner Carlo De Benedetti. Amorevolmente accudito da Francesco Pazienza. Il banchiere milanese si è convinto di essere il più furbo di tutti e di poter giocare su mille tavoli, contemporaneamente. Dimentica, tuttavia, che la fine arte del vivere, del sopravvivere, del prosperare richiede intelligenza, accortezza e tanto pelo sullo stomaco. Lo fanno ballare, con una corda attorno al collo, appeso ad un traliccio, sotto il ponte di Black Friars, a Londra.

Gaspare Spatuzza, durante la sua deposizione al processo d’appello contro Marcello Dell’Utri (Pdl), dichiarò che il boss Graviano gli aveva confessato (nel 1994) che: “il nostro compaesano Dell’Utri e quello di Canale5, ci hanno messo il paese nelle nostre mani”, parlando anche di alcune trattative fra Stato e Mafia, per mettere fine alla stagione stragista (antecedente all’ascesa politica del duo Dell’Utri – Berlusconi). Cosa ne pensa? Esaminando questa e le altre dichiarazioni rese nel corso degli anni da questi “mafiosi ravveduti”, vorrei sapere: quale idea si è fatto del pentitismo?

Le formazioni terroristiche, ma soprattutto le mafie sono da sempre organizzazioni strutturate in modo rigoroso sulla segretezza, il vero baluardo di fronte agli attacchi investigativi da parte dello Stato, il quale, soltanto attraverso l’apertura di una breccia sul fronte omertoso è in grado di conoscere ed incidere su un mondo altrimenti imperscrutabile. Questo il sillogismo elementare alla base del pentitismo moderno, ossia della tutela garantita dallo Stato ad (ex) appartenenti a formazioni terroristiche e a cosche mafiose in cambio di una collaborazione “verificata” su personaggi, fatti e notizie sull’organizzazione.

Il fenomeno del pentitismo, ormai di larghissime proporzioni anche numeriche, ha sollevato alcuni problemi, sia per i magistrati, sia per i politici, sia per la società civile: per i magistrati  diventa difficile capire se le dichiarazioni dei “pentiti”  sono sincere, cioè dovute ad un reale pentimento, o strumentali, per depistare le indagini, e  favorire così determinate cosche; né è facile per i politici  discutere ed approvare delle leggi adeguate riguardanti questo fenomeno, che ha come protagonisti uomini i quali si sono macchiati di reati e delitti indelebili, devono pagare per il male commesso e, allo stesso tempo, devono ricevere protezione per se stessi e per la loro famiglia.

Il continuo esplodere e riesplodere delle polemiche sull’uso dei collaboratori di giustizia e la contraddittorietà degli argomenti spesi nel dibattito, talora stucchevole, che investe ciclicamente il fenomeno, inducono a  ricercare le premesse esatte che garantiscono, in materia, un discorso vertebrato.

Debbo premettere che, oltre ad avere interrogato, nel corso delle indagini da me svolte, molti collaboratori di giustizia di primaria importanza nelle indagini per terrorismo e per mafia (da Paolo Aleandri, a Sergio Calore, a Walter Sordi, a Cristiano Fioravanti, a Maurizio Abbatino, a Pasquale Galasso, a Tommaso Buscetta, a Gaspare Mutolo, a Francesco Marino Mannoia,  a Pino Marchese…), dal 4 ottobre 2001 al 10 maggio 2006, sono stato anche Componente della Commissione Centrale per la definizione e l’applicazione delle speciali misure di protezione (art. 10 L. n. 82/91). In tale periodo, la suddetta Commissione ha concorso alla predisposizione dei cinque decreti ministeriali attuativi della L. 8 ottobre 2001, n. 45; ha adottato una pluralità di decisioni di massima volte a dare concreta attuazione alla citata legge, dapprima in attesa dell’emanazione dei Regolamenti attuativi e, successivamente, in attuazione di essi, attraverso l’adozione di delibere di carattere generale; ha trattato 6347 fascicoli; proceduto: a 211 audizioni di testimoni di giustizia; a 5 audizioni di collaboratori di giustizia; 20 audizioni di magistrati; 39 audizioni di altri soggetti (Prefetti, Questori, Direttori generali ecc., interessati alla soluzione di problematiche sia generali che particolari); adottato 4841 provvedimenti; disposto 582 nuove ammissioni. Tutto questo mi ha consentito di farmi un’idea  precisa del fenomeno.

Iniziamo con un po’ di storia. Si comincia a parlare di pentiti a fine anni Settanta – inizio anni Ottanta, quando alcuni terroristi rossi cominciano a dissociarsi e a collaborare con i giudici. Da lì il termine passerà poi anche a definire i mafiosi che lasciano l’organizzazione criminale, tra i quali spicca il nome di Tommaso Buscetta, uno dei primi boss a “parlare”, ma in realtà già prima esistevano figure assimilabili al genere collaboratore, anche se di norma non si può parlare di un pentito nel senso morale del termine. In alcune sentenze della metà dell’Ottocento si riscontrano elementi di prova che non potevano che emergere da fonti interne alle organizzazioni mafiose. Fin dal 1878 è possibile individuare il primo pentito di mafia, tal D’Amico, il quale non arrivò a testimoniare al processo perché ucciso prima. Tale epilogo costituisce l’incubo e la spada di Damocle di ogni protagonista della scelta collaborativa. Eventi analoghi hanno segnato anche la storia di altre organizzazioni criminali, come le esternazioni di Gennaro Abbatemaggio, che nel 1911 con le sue dichiarazioni dà il via al processo Cuocolo, uno dei più grandi processi di camorra del secolo. Potremmo azzardare che i pentiti ci sono sempre stati, solo che prima o erano confidenti o erano testimoni (quindi non appartenenti all’organizzazione mafiosa) e le motivazioni erano diverse. Qualcuno parlava per vendetta, qualcun altro per ottenere il passaporto ed espatriare in America.

Il pentitismo moderno, nasce nei primi anni Ottanta, allorché maturarono alcune condizioni fondamentali che prima non c’erano. Emblematica la vicenda di Leonardo Vitale: nel 1973, quest’uomo si presentò all’autorità di polizia e rese dichiarazioni su una serie di episodi che conosceva, su fatti di sangue di cui lui stesso si era macchiato e su alcuni aspetti di Cosa nostra, ma nessuno gli credette. Vitale fu dichiarato seminfermo di mente, fu l’unico ad essere condannato e le persone che aveva accusato furono prosciolte. Dieci anni dopo le sue dichiarazioni furono però confermate da pentiti come Buscetta e Contorno, e questo perché sul palcoscenico della giustizia erano arrivati magistrati attenti, come Falcone e Borsellino, che  credevano nell’uso di questo strumento processuale. Vitale fu comunque ucciso dalla mafia, anche se a dieci anni di distanza, nel 1984, quando uscì dal manicomio. Cosa Nostra aveva compreso fin d’allora le potenzialità distruttive di questo fenomeno. Per la mafia il silenzio e la segretezza sono sacri ed ogni violazione a queste regole fondamentali va sanzionata in modo esemplare, per non creare conseguenze dannose al clan e come monito per gli altri. Tra le motivazioni che spingono un mafioso a chiudere con il suo passato raramente c’è il pentimento morale, più spesso la motivazione dominante è un tornaconto personale, e prima di tutto un futuro diverso per la propria famiglia. In questo quadro il regime di cui all’art. 41 bis (della legge carceraria n. 354 del 26/7/75 introdotto con la legge 10/10/86 n. 663), il c.d. carcere duro, è stato sicuramente per molti un elemento scatenante, ma se esiste una linea comune alle varie storie di pentiti questa sembra essere individuabile nella ricerca di un’altra possibilità con lo Stato ed una prospettiva “non mafiosa” per i figli.

Scriveva Giovanni Falcone il 27 ottobre 1990 (un anno prima era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale): «Il fenomeno del pentitismo, valutato spesso in modo troppo emozionale fin quasi a demonizzarlo, costituisce in realtà uno dei temi fondamentali su cui si gioca il buon esito della riforma del processo penale. E’ necessario riaffermare ancora una volta che, in un processo penale dominato dall’oralità e dalla formazione dibattimentale della prova, non si può fare a meno, soprattutto in tema di reati di criminalità organizzata, del “teste della Corona” e cioè delle dichiarazioni di coloro che, proprio per avere fatto parte di organizzazioni criminose, sono in grado di riferire compiutamente dall’interno le dinamiche e le attività illecite delle organizzazioni stesse. Si tratta di concetti così scontati, e perfino banali, che è veramente singolare che ancora non si disciplini tale delicata materia, lasciando inaridire una possibilità di indagini utilissima. E se è vero – come è vero – che una delle cause principali, se non la principale, dell’attuale strapotere della criminalità mafiosa risiede negli inquietanti suoi rapporti col mondo della politica e con centri di potere extraistituzionale, potrebbe sorgere il sospetto, nella perdurante inerzia nell’affrontare i problemi del pentitismo, che in realtà non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti. Né si dica che il cosiddetto pentitismo può essere uno strumento di indagini rischioso, data la dubbia attendibilità dei collaboratori della giustizia, e che, comunque, potrebbe disabituare gli organismi investigativi dal compiere le indagini. Quanto al primo punto, è agevole replicare che l’indubbio rischio esistente si supera con la professionalità dei magistrati e degli investigatori, e che se si vogliono ottenere risultati, in qualunque settore, è necessario affrontare dei rischi seppur cercando di evitarli; quanto al secondo, basta ricordare che vi sono Paesi in cui da secoli si fa largo uso dei “pentiti” e gli organismi di polizia non hanno certamente una professionalità inferiore alla nostra.» Con legge n. 82 del 1991, finalmente, vennero introdotta la prima disciplina per la protezione dei collaboratori di giustizia e le disposizioni relative al loro trattamento sanzionatorio.

La “professionalità”, quale baluardo contro l’uso improprio delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, non è concetto astratto, ma prerogativa individuale dell’uomo-giudice, non indipendente, dunque, dai cromosomi. E, come si sa, questi non si possono modificare per legge. Può capitare, allora, e stando alla clinica giurisprudenziale è purtroppo accaduto, che le dichiarazione dei  “collaboratori di giustizia” siano state trattate con assai scarsa professionalità, così che ne sono state volta a volta rinfocolate le polemiche e i sospetti che circondano l’istituto della collaborazione

Ricapitolando: il pentitismo in Italia ha avuto un ruolo importantissimo nella lotta al terrorismo e alla mafia. Senza i primi “dissociati” che iniziarono a collaborare non sarebbe stato possibile contrastare le ‘Brigate Rosse’ e ‘Prima Linea’, né i NAR e le formazioni eversive di estrema destra in genere. La conoscenza della complessità di “Cosa Nostra” è stata favorita dalla strettissima collaborazione tra il “Boss dei due Mondi”, Tommaso Buscetta, e Giovanni Falcone.

Vale la pena di ricordare nel dettaglio quest’ultima vicenda, perché conserva un carattere esemplare per capire come e in che misura lo Stato dovrebbe avvalersi dei pentiti, ma anche perché è a quel tempo che risalgono i fatti concernenti le deposizioni di Spatuzza..

Allorché Falcone venne a conoscenza dell’arresto di Buscetta in Brasile, cercò di interrogarlo il prima possibile. Ma per lunghissimi mesi dal Palazzo di Giustizia di Palermo non uscì alcun tipo di “indiscrezione”. In breve, si arrivò a fare chiarezza su alcuni omicidi controversi, come quelli di Ninni Cassarà, Rocco Chinnici e Giuseppe Montana. La dissociazione di Buscetta aiutò a cambiare l’orientamento di altri boss e a instaurare un nuovo rapporto di “dialogo” tra magistratura inquirente e neo-pentiti. A ruota, Totuccio Contorno, Francesco Marino Mannoia e Nino Calderone cominciarono a “parlare”. È allora che si scatenò una vera e propria campagna mediatica, oggi del tutto dimenticata, contro il “protagonismo” di Falcone. Grancassa che partiva proprio dall’interno del Palazzo di Giustizia di Palermo, e che mirava a delegittimare l’azione del giudice.

Spatuzza, cooptato in Cosa Nostra da Grigoli, sicario al “servizio” di Filippo e Giuseppe Graviano, dunque dei boss del quartiere Brancaccio, “vicino” in seguito (era nel contempo avvenuta l’affermazione dei corleonesi) di Leoluca Bagarella, ha partecipato all’omicidio di Don Pino Puglisi e del tredicenne Giuseppe di Matteo, rapito e ucciso dopo oltre 2 anni di prigionia, perché il padre Santino era diventato collaboratore di giustizia, ucciso e sciolto nell’acido.

È ben vero che la credibilità dei pentiti non dipende dalla loro fedina penale, ma sta nella rigorosa verifica delle loro affermazioni, proprio per questo, tuttavia, colpisce il fatto che 250 televisioni di tutto il Mondo abbiano potuto registrare le dichiarazioni di Spatuzza senza un loro preventivo riscontro. In tal modo si è fatto un “uso improprio” delle dichiarazioni del collaborante.

Ma v’è di più. Il fatto che Spatuzza durante la deposizione a Torino abbia parlato di azioni “terroristiche”, usando un aggettivo inedito per un pentito di Cosa Nostra, suona adesione a una costruzione teorica che va al di là della mera “restituzione” dei fatti, a cui si dovrebbe “attenere” il collaboratore di giustizia. D’altra parte, Spatuzza è stato arrestato nel 1997, ma si è deciso a collaborare solo nel 2008. Ora, al di là delle motivazioni che hanno spinto alla tardiva collaborazione Spatuzza, il quale si è nel contempo iscritto alla facoltà di teologia, e degli eventuali “benefici” che potrebbe ricavarne, vale la pena di sottolineare che Buscetta collaborò da subito e non si dichiarò mai “pentito” e, dunque, la sua testimonianza, oltre ad addentrarsi proprio nella “comprensione” dei meccanismi operanti all’intorno di Cosa Nostra, era avvalorata proprio dall’assenza di implicazioni etiche: “Don Masino”, uomo molto intelligente e di levatura molto diversa dalla “manovalanza” da macelleria assegnata, negli incarichi, al killer Spatuzza, parlava perché gli andava di parlare, non perché “folgorato” lungo la via di Damasco.

Venendo, poi, allo specifico delle deposizioni di Spatuzza a Torino, in qualche maniera confutate dalle deposizioni dei fratelli Graviano, allorché il pentito parla di una Cosa Nostra “terroristica” lo fa con riguardo alle stragi del 1992/1993: Capaci, via D’Amelio a Palermo, via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano, San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma. A stupire, nel merito della deposizione, è il fatto che durante l’intervento in aula alle frasi generiche di Spatuzza non siano corrisposte domande né dell’accusa né della difesa. Inoltre, all’auto-denuncia per l’omicidio di Paolo Borsellino e della sua scorta, che aveva già dei “colpevoli”, ora scagionati, e che a loro volta si erano “auto-accusati” (circostanza su cui si fonda la sua pretesa attendibilità), corrisponde una nuova “lettura” della morte dei due magistrati, sino a oggi considerata frutto di decisioni distinte e che ora, invece, vengono “inquadrate” come esiti di un univoco “disegno” da parte dei vertici della “Mafia”.

Questa nuova prospettazione sembra escludere l’esistenza di un tentativo di instaurare una “tregua” tra Mafia e Stato dopo la strage di Capaci, a cui Borsellino si sarebbe opposto. La versione di Spatuzza invalida l’ipotesi di un negoziato contingente a quegli eventi. Ma non va a minare, e anzi mira a “corroborare” una “lettura” del rapporto tra i due sistemi, Mafia e Politica, fondata sulla sussistenza di una trattativa protrattasi per molti anni, a fronte dell’avvicendarsi dei reciproci interlocutori.

Breve: dopo l’omicidio Lima, Cosa Nostra avrebbe tentato di stringere rapporti con il PSI, cambiando di fatto “cavallo”, dopo aver a lungo trattenuto rapporti più o  meno espliciti prima con la corrente di Fanfani e poi con quella di Andreotti. Ma proprio in ragione dell’atteggiamento molto duro tenuto dal Ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, in coincidenza per altro con la stagione di Tangentopoli, sarebbe dapprima maturata nella Cupola la decisione di “eliminare” simultaneamente lo stesso Martelli, Falcone e Maurizio Costanzo. Una strategia poi rientrata, allorché nella Capitale sarebbero già stati “allertati” alcuni tra i killer più “affidabili” della mafia corleonese: Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro e Vincenzo Sinacori. Ma il “piano” avrebbe, secondo Spatuzza, lasciato il posto a un’apertura di dialogo nei confronti di un nuovo soggetto politico che doveva vedere la luce di lì a pochi mesi, Forza Italia. È Giuseppe Graviano a “confidare” al pentito la volontà di affidarsi a Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi come nuovi interlocutori.

Occorre sottolineare ancora che le “circostanze” riferite da Spatuzza, che non era un leader all’interno dell’organizzazione e, proprio come per altri collaboratori (Mannoia, Cancemi, Giuffré) non era direttamente informato del volere dei due “capi”, Riina e Provengano, riguardano più la sfera dei “sentito dire” e delle “opinioni” che dei “fatti”: è come se si volesse ricostruire la strategia di una “multinazionale” e le relazioni strette dal suo management dalla conversazione con un “quadro”. In merito al suo “pentimento” c’è anche da dire che è “curioso” come, almeno per una volta, l’opinione di Marcello Dell’Utri sembri collimare con quella di Eugenio Scalari: entrambi sono convinti che la “confessione” di Spatuzza rientri in un tentativo di Cosa Nostra di delegittimare un Governo che continua a ottenere risultati rilevanti nella lotta alla criminalità organizzata in Sicilia.

MATTEO MARINI e FEDERICO CECCHINI

Matteo Marini

Giornalista pubblicista, fondatore e direttore di Wild Italy. Ha collaborato con varie testate nazionali e locali, tra cui Il Fatto Quotidiano e La Notizia Giornale, ed è blogger per l’Huffington Post Italia. Nel 2011 ha vinto il Primo Premio Nazionale Emanuela Loi (agente della scorta di Paolo Borsellino, morta in Via d’Amelio) come “giovane non omologato al pensiero unico”. Studioso di Comunicazione Politica, ha lavorato in campagne elettorali, sia in veste di candidato che di consulente e dirige, da fine 2016, Res Politics - Agenzia di comunicazione politica integrata . DIRETTORE DI WILD ITALY.

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