Kobe Bryant e l’amore per il gioco
Il momento del suo ritiro doveva giungere prima o poi. La maggior parte dei siti internet non è riuscita ad aspettare e gli ha già dedicato un articolo. Forse era troppa l’emozione da esprimere. La lettera pubblicata lo scorso 29 novembre da Kobe Bryant, nella quale lo sportivo annunciava il suo ritiro dopo la stagione 2015/2016, è stata un colpo allo stomaco. Questo sarà il primo di altri che molto probabilmente lo seguiranno a breve come Duncan, Garnett e Nowitzki. Troppo difficile dire addio allo sport che ti ha fatto diventare l’uomo che sei adesso. Sempre lo stesso che ti ha dato la possibilità di inseguire i tuoi sogni ma che ti ha anche richiesto innumerevoli sacrifici. Non voglio narrare la storia di Kobe Bryant, dalle giovanili in Italia al suo ultimo tiro con la maglia dei Lakers, dato che la conoscono tutti gli appassionati di questo sport, ma voglio riportare i momenti salienti che descrivono al meglio il giocatore dei Los Angeles e che mi hanno fatto odiare e innamorare del Black Mamba.
L’etica del lavoro: 13 maggio 1997
Una delle caratteristiche chiave di Kobe Bryant è il lavoro. Lo ha contraddistinto fin dal primo momento in cui è entrato in NBA. L’episodio che mostra al meglio la sua etica avviene il 13 maggio del 97.

Esattamente il giorno dopo l’eliminazione ai playoff subita dagli Utah Jazz di Malone e Stockton. In quel match, il giovane Kobe (20 anni) ha mancato più volte il colpo del K.O. sia nei minuti finali del tempo regolamentare che nell’overtime. Risultato? Lakers fuori dai playoffs. Sconfitti per 4 a 1. Il giorno dopo, però, la giovane guardia dei Los Angeles era ad allenarsi. Per migliorare. Per non sbagliare più quei tiri che sono costati l’eliminazione dalla corsa al titolo. Lo stesso Bryant ha ricordato “Non ho avuto un offseason. Sono andato dritto al liceo Palisades quella notte, non appena siamo atterrati. Sono andato dritto in palestra. Conoscevo il bidello, ha aperto la palestra per me e sono stato lì fino a quando il sole si è alzato. Ero di nuovo lì il giorno seguente, e quello dopo ancora e il giorno ancora dopo.” Un inno allo sport. Un messaggio trasmesso a tutti i giovani giocatori di pallacanestro. Per diventare uno dei più grandi, bisogna lavorare in ogni momento della vita. Anche nei momenti difficili. Soprattutto in quelli.
Nessun Ostacolo: 14 giugno 2000

Finale contro gli Indiana Pacers di Reggie Miller. In gara 2, Kobe cadde male sulla caviglia destra e fu costretto a saltare il resto della partita e gara 3 (poi persa). In quel breve lasso di tempo Bryant fece di tutto per tornare sul parquet. Il 14 giugno entrò in campo e fu il risolutore del match. Con O’Neal fuori per falli, il numero 8 mise otto punti consecutivi nel supplementare, segnando anche il canestro cruciale. Niente poteva fermare il Black Mamba. Ecco un’altra sua caratteristica: l’ossessione a diventare il numero 1. Questo è uno degli elementi che lo ha contraddistinto in modo decisivo dagli altri suoi compagni. Ossessione nata nello stesso momento in cui è venuto al mondo. Solo un altro giocatore aveva la stessa identica malattia: Michael Jordan, il dio del basket. Nessun ostacolo, nessun giocatore e nessuna squadra avrebbero potuto fermare Kobe nel momento in cui si metteva in testa un obiettivo.
La squadra di Kobe: 16 luglio 2004
Una delle più importanti decisioni dei Los Angeles Lakers è stata presa il 16 luglio 2004 quando durante la free agency sono stati costretti a scegliere tra Kobe e Shaq.

Reduci da una finale persa 4 a 1 contro i Pistons, qualcosa si era rotto all’interno della squadra di Buss: rapporti tesi tra le due star del team e uno molto incrinato tra Bryant e Phil Jackson. Le condizioni che aveva dettato il Black Mamba per rimanere erano rigide: via O’Neal e Jackson, altrimenti sarebbe approdato ai rivali Clippers. Di fronte a questa situazione, la dirigenza dei Lakers scelse di puntare fortemente sul numero 8 gialloviola, affidandogli l’intero futuro della franchigia. Questo è stato un nodo cruciale per la carriera di Kobe Bryant. Troppe volte criticato perché egoista o perché aveva vinto solo grazie al suo compagno Shaquille O’Neal. Ora il suo obiettivo era solo uno: diventare il numero uno dei Lakers. Far si che Los Angeles lo ricordasse come il giocatore più forte che avesse mai visto. Fin da bambino aveva amato quella squadra. L’aveva tifata e aveva appreso il valore del successo. A testimonianza di ciò le sue parole sono inconfondibili: «Ho sempre voluto essere un Lakers. È nel mio cuore. Questo è quello che faccio, questa è la squadra dove voglio giocare e avere la possibilità di finire la mia carriera qui».
Unstoppable: 20 dicembre 2005
La partita che più mostra l’istinto killer in attacco e quanto sia inarrestabile Kobe Bryant è quella che si è tenuta allo Staples Center il 20 dicembre 2005. Non quella che si sarebbe tenuta un mese dopo contro i Raptors, nella quale avrebbe firmato 81 punti, la migliore seconda performance di tutti i tempi in NBA.

Il match contro i Dallas Mavericks rimane infatti la partita simbolo della sua onnipotenza cestistica. Kobe chiuderà la sua partita alla fine del terzo quarto con i Lakers in netto vantaggio. Andrà a sedersi in panchina con a referto 62 punti frutto di un 18/31 dal campo. La cosa incredibile non è tanto l’aver segnato 62 punti in soli tre quarti (cosa ovviamente notevole), ma piuttosto il fatto di aver messo a segno più punti dei Mavs che hanno chiuso la terza frazione di gioco a quota 61. E al contrario dei Raptors, squadra in ricostruzione, tutto ciò è avvenuto con i Dallas che hanno chiuso al primo posto la stagione e sono andati in finale NBA. Ed ecco che incontriamo un’altra caratteristica di Kobe: l’istinto offensivo, il morso del Mamba. Questa capacità lo rende unico in tutta la lega. Sembra quasi che quando entra nel parquet e inizia a giocare dica “Puoi fare qualsiasi cosa. Ma se io voglio vincere, non mi fermerai. Io sono inarrestabile”.
Finalmente è mio: 14 giugno 2009
Il 14 giugno 2009 è il momento che Kobe aspettava dal luglio 2004 quando, come abbiamo detto, i Lakers scelsero lui come cardine del loro futuro, e non O’Neal.

In quella gara 5 di finale ha coronato finalmente ciò che desiderava di più al mondo. Arrivare al titolo. Vincerlo con tutte le proprie forze e da protagonista. Era finalmente il suo titolo. La paura e la sfida più dura che Bryant stesso si era dato erano finite. Con 30 punti siglati, a fine partita, arriva il premio tanto desiderato. Il premio di MVP (Most Valuable Player) delle finali era suo, di nessun altro. Non più. La costanza ha permesso al numero 24, non più 8, gialloviola di arrivare dove è arrivato. Non ha mai desistito, nemmeno durante gli anni bui a Los Angeles. E anche quando era arrivato al culmine, ha aspettato l’arrivo di un giocatore perfetto per lui. È giusto menzionare, infatti, Pau Gasol, la spalla migliore nel momento giusto. Ma non è finita qua.
Tra i più grandi di sempre: 17 giugno 2010
Esattamente un anno dopo, arriva il secondo titolo consecutivo contro i grandi rivali, i Celtics (rivincita della finale persa nel 2008). Il quinto titolo in carriera, il secondo da MVP delle finali. È finalmente arrivato il momento che il mondo lo consideri tra i più grandi di tutti i tempi. Tra i migliori dei Lakers. Si è finalmente scrollato da dosso l’etichetta di egoista e di prima donna. Cresciuto sotto tutti gli aspetti, Kobe Bryant è diventato il leader che si aspettavano i Lakers stessi. Una bandiera che ha dedicato tutto se stesso alla squadra del cuore e al suo sport preferito. Il 17 giugno 2010 è fondamentale perché finalmente anche il suo nome risuona tra i più grandi di sempre. Accanto a Jordan, Bird e Magic, ora c’è anche lui.

Indimenticabile: 13 aprile 2016
E come poteva uscire definitivamente dalla scena uno dei migliori protagonisti di questo sport? Con una prestazione irreale. 60 sono i punti a referto nella sua ultima apparizione. Ieri notte è sceso in campo per l’ultima volta Bryant, il terzo miglior marcatore di sempre. Contro gli Utah Jazz. Qualcosa di indimenticabile. Dalla presentazione all’ultimo tiro della sua carriera. Una atmosfera magica che difficilmente gli appassionati di questo sport dimenticheranno. Eh sì, perché l’avventura di Kobe sarà indimenticabile. Il giocatore che più ha ricordato His Airness. Lo stesso che ha segnato un’intera generazione di ragazzi, compresa la mia. Il simbolo più lucente degli anni 2000. Colui che ha reso questo sport ancora più bello di quanto sia, mostrando tutti i sacrifici e il duro lavoro che sta dietro.
Ha ispirato i nuovi giocatori a dare tutto sul campo. A non fermarsi davanti a nessun ostacolo, dimostrandolo soprattutto quando ha subito il più grave infortunio della sua carriera (Tendine D’Achille e conseguente fine anticipata della stagione). Ma nonostante ciò andò in lunetta e fece i due tiri liberi. Nessun giocatore fino ad allora aveva fatto quello che ha compiuto lui in quel determinato momento. Ma lui è Kobe Bryant, il giocatore che i tifosi amano e nello stesso tempo odiano (come ho fatto io in alcuni momenti), ma che gli appassionati ed esperti ricorderanno sempre come una Leggenda Indimenticabile.
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