La testimonianza di Napolitano, tra luci e ombre.

Resa disponibile dallo stesso Napolitano, la pubblicazione del verbale dell’udienza che si è tenuta martedì al Quirinale aiuta senza dubbio ad avere un quadro più completo rispetto al contesto che il processo sulla trattativa tra Stato e mafia sta cercando di chiarire.

Dire, come ha fatto Massimo Franco del Corriere, che la testimonianza del capo dello Stato ci ha messi di fronte «a fatti che sembravano già ampiamente sviscerati nei processi», dal punto di vista giuridico denota infatti un semplicismo imbarazzante: le parole di Napolitano sul «ricatto» allo Stato di Cosa nostra, in particolare della sua ala corleonese (un vero e proprio «aut-aut» comprensivo anche delle minacce indirizzate nell’estate del ’93 contro la sua stessa persona), rendono piena giustizia alla ricostruzione dei pm di Palermo, incentrata sulla contestazione del reato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato, che ad oggi mai stato oggetto di attenzione specifica in un’aula di tribunale. Come già detto, quel processo s’ha da fare.

Al di là di questa doverosa premessa, le 86 pagine dell’udienza ci mettono di fronte a una serie di elementi che richiede senza dubbio ulteriori approfondimenti.

Innanzitutto, andrà rivelato come Napolitano, nonostante lo stato d’ansia espresso da D’Ambrosio nella sua lettera di dimissioni, nei quaranta giorni che vanno dall’invio della stessa missiva (18 giugno 2012) alla sua morte (26 luglio), non abbia ritenuto opportuno indagare sulle questioni sollevate dallo scritto, in particolare sugli «indicibili accordi» ipotizzati dal consigliere: il capo dello Stato ha affermato che il rapporto con D’Ambrosio non è mai andato oltre quello lavorativo, giustificando in questo modo l’assenza di discussioni relative al periodo 1992-1993, peraltro precedente alla data del loro primo incontro, avvenuto solo nel 1996.

Allo stesso modo, Napolitano ha motivato il proprio disinteresse riguardo a un altro passo della lettera, quello relativo ad alcune audizioni convocate dalla commissione parlamentare antimafia, guidata all’epoca da Luciano Violante, audizioni che suscitarono in D’Ambrosio addirittura il desiderio «di tornare […] a fare indagini» in prima persona, per quanto queste, possiamo supporre, lasciarono trapelare. In aggiunta, secondo la testimonianza di Napolitano, se il consigliere avesse avuto a disposizione qualcosa di effettivamente concreto, rispetto a questi due punti, si sarebbe certamente rivolto all’Autorità giudiziaria.

Al di là dei quesiti che tale ricostruzione può sollevare, occorre sottolineare anche come la deposizione abbia indicato una nuova possibile pista investigativa, certamente da approfondire: il presidente ha suggerito di chieder conto di quanto scritto dal consigliere ad «altre personalità che hanno avuto rapporti in quegli anni [dal 1989 al 1993, il periodo chiamato in causa dalla lettera], come soggetti istituzionali, con D’Ambrosio, […] coloro che avevano la responsabilità in tutti gli aspetti della impostazione, della guida e della gestione della politica antimafia e della lotta contro la criminalità organizzata, [ovvero] naturalmente il Ministro della Giustizia, il Ministro dell’Interno, la Commissione Antimafia».

Questo passo, certamente significativo per un possibile svolgimento delle indagini, non permette tuttavia di passare sotto silenzio le amnesie e i lapsus del capo dello Stato, degni di ulteriori accertamenti. Napolitano dice innanzitutto di non ricordare né un appunto dell’allora vicepresidente della Direzione Investigativa Antimafia, Gianni De Gennaro, che interpretava le stragi dell’estate del 1993 come una richiesta di alleggerimento del 41-bis, né eventuali minacce a deputati, benché all’epoca, in virtù del suo ruolo di presidente della Camera, ne fosse il più alto rappresentante.

La deposizione inoltre dà per certa l’immediata divulgazione da parte dei mezzi di stampa di una lettera di minacce di presunti parenti dei mafiosi soggetti al carcere duro inviata nel 1993, tra gli altri, a diverse autorità civili (presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, ministro dell’Interno, Ministro della Giustizia)napolitano, lettera della quale i pm, negando l’esistenza di articoli di giornale dell’epoca a essa relativi, affermano di essere venuti a conoscenza solo qualche anno fa.

A questi passi controversi della deposizione di Napolitano andrà aggiunto infine un altro elemento: dobbiamo infatti rilevare come, a differenza di quanto scritto nella nota del Quirinale subito dopo l’udienza, per quanto indirettamente, il capo dello Stato abbia fatto più volte appello alla sentenza della Consulta sulla riservatezza delle sue comunicazioni con cui vinse il conflitto di attribuzioni contro la procura di Palermo nel dicembre 2012. Il presidente della Repubblica la richiama infatti in tre occasioni (alle pp. 21, 58-59 e 74 del verbale), sempre per respingere le richieste di un qualsivoglia approfondimento sugli «indicibili accordi» evocati dalla lettera di D’Ambrosio.

Rispetto a questa serie di contenuti, la storica deposizione del presidente della Repubblica assume un certa rilevanza: caratterizzata dall’alternanza di luci e ombre, essa rappresenta uno dei pochi tasselli a oggi noti all’opinione pubblica che compongono il mosaico delle sensazioni provate dallo Stato durante il biennio delle stragi mafiose dei primi anni Novanta.

 

Alessandro Bampa

Nato nel 1987 a Vicenza, consegue a Padova la laurea triennale in Lettere moderne, quella magistrale in Filologia medievale e il dottorato di ricerca in Filologia romanza. Creatore nel 2009 del blog bile.ilcannocchiale.it (sospeso nel 2011 per collaborare con "Wilditaly" e citato ne "I nuovi mostri" di Oliviero Beha nell’elenco delle "associazioni che a vario titolo rientrino nell’accezione culturale di chi promuove riflessioni sullo stato del Paese”), fino a gennaio 2011 ha fatto parte della redazione della rivista online "Conaltrimezzi", dirigendo le sezioni dedicate all’attualità e al mondo universitario. REDATTORE SEZIONE INTERNI

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