Le dimissioni di Napolitano. E di Renzi?
Dopo due giorni di tam tam mediatico, oggi è definitivamente esplosa la questione sul termine del mandato di Giorgio Napolitano. La discussione si è infatti arricchita nelle ultime ore di ulteriori colpi da scena: da un lato, le ipotesi sulla data delle dimissioni (gennaio 2015) e sui possibili successori (dalla Pinotti alla Finocchiaro, da Veltroni ad Amato, passando per altri volti); dall’altro, le parole del Capo dello Stato che, in una nota pomeridiana, dice di non avere «né da smentire né da confermare nessuna libera trattazione dell’argomento sulla stampa».
Con queste due notizie, la possibilità di un avvicendamento al colle più alto di Roma si fa decisamente concreta: se i giornali si sono spinti addirittura a indicare in contemporanea il giorno della rinuncia e i nomi dei papabili, dobbiamo pensare che i rumors – le mai meglio precisate «fonti del Quirinale» – abbiano ormai acquisito una certa consistenza. Tale dato risulta ancor più evidente se pensiamo che la mancata smentita di Napolitano rappresenta un unicum nella storia delle sue dichiarazioni. Finora infatti ogni ipotesi sul tema è sempre stata respinta dal Presidente, spesso anche in maniera stizzita, come ci ricorda il suo discorso pronunciato durante l’ultima cerimonia del Ventaglio, lo scorso 22 luglio, quando si invitarono i giornalisti ad astenersi da «premature e poco fondate, forse anche poco interessanti, ipotesi e previsioni» sulla durata del reincarico, vero e proprio «gioco sterile».
Se gli indizi convergono in un’unica direzione, occorre rilevare come la nota miri a evidenziare la coerenza del pensiero di Napolitano: «i termini della questione sono noti da tempo», perché il Capo dello Stato, «nel dare la sua disponibilità – come da molte parti gli si chiedeva – alla rielezione […], indicò i limiti e le condizioni – anche temporali – entro cui egli accettava il nuovo mandato». Napolitano si riferisce evidentemente al suo secondo discorso d’insediamento tenuto di fronte alle Camere riunite il 22 aprile 2013, discorso in cui sferzò il Parlamento ancorando la durata del suo incarico alla realizzazione di alcune riforme, su tutte quelle delle legge elettorale e della seconda parte della Costituzione, quella relativa all’architettura istituzionale. Il Presidente sul punto fu molto chiaro: in caso di una loro mancata realizzazione, non avrebbe esitato a «trarre le conseguenze dinanzi al Paese».
Rispetto alla contingenza in cui vennero pronunciate queste parole, se oggi le dimissioni paiono una strada sempre più percorribile, dobbiamo pensare che, data l’assenza di interventi concreti sulle due materie indicate, secondo Napolitano, la situazione non è cambiata. Tale considerazione non pare secondaria. Essa infatti certifica come, a giudizio del Capo dello Stato, i Governi Letta e Renzi siano accomunabili nei loro risultati. Comparabili per la loro natura composita (frutto delle larghe intese tanto invocate dallo stesso Napolitano nel medesimo discorso d’insediamento) e, ormai, per la loro durata (nove mesi, giorno più, giorno meno), sui due temi principe indicati da Napolitano entrambi hanno fatto registrare solo fallimenti clamorosi. Se infatti Letta non ha indicato alcuna soluzione, Renzi, per gli scricchiolamenti del famigerato «patto del Nazareno», è ancora lontano dalla approvazione dell’Italicum (passato solo alla Camera) e dell’intervento sulla Costituzione (votato solo al Senato per la prima volta).
Il possibile termine del mandato di Napolitano apre scenari che vanno ben al di là del futuro della più alta carica dello Stato: le sue probabili dimissioni potrebbero certificare il fallimento dell’uomo da «una riforma al mese».