Mank, la genesi di Quarto potere di Orson Welles attraverso gli occhi di Herman J. Mankiewicz
I ruggenti anni Trenta e la sceneggiatura di Quarto potere, Mank di David Fincher, un film Netflix con Gary Oldman, Amanda Seyfried e Lily Collins
Recitava così Orson Welles in Quarto potere (1941): “la vita di un uomo non si può spiegare con una sola parola“. In quel caso era Rosabella (Rosebud in originale) la parola, e al suo interno racchiudeva il mistero del Cittadino Kane wellesiano; della sua infanzia perduta, di un’amore ricercato tutta una vita, posseduto e infine perso. David Fincher sembra rileggerne l’enfasi quasi ottant’anni dopo, ora nel titolo – Mank (2020) – ora in una battuta che ne spiega, indirettamente, la ratio filmica: “Non si può cogliere la vita intera di un uomo in due ore; il massimo che puoi sperare è dare l’impressione di averlo fatto.”
Il cineasta de Fight Club (1999) dispiega infatti – in poco più di due ore – uno scorcio di vita di Herman J. Mankiewicz; ma la sensazione che si ha, a visione ultimata, è di qualcosa che dia l’impressione di aver assistito per davvero, all’intera esistenza del colorito sceneggiatore. Racconta infatti della travagliata lavorazione dello script di Quarto potere, mostrando un processo creativo tumultuoso e alcolico; da cui emerge un quadro tirannico e bambinesco del Welles-autore/ragazzo prodigio, definito perfino “muso di cane” nel corso del racconto.
Tratto da una sceneggiatura di Jack Fincher (il padre del regista) a sua volta ispirata dal criticatissimo articolo del The New Yorker, Raising Kane (1971) di Pauline Kael; nei piani iniziali Mank sarebbe dovuto essere il progetto successivo a The Game (1997) per Fincher, con Kevin Spacey e Jodie Foster come protagonisti. La lavorazione, tuttavia, non partì mai per davvero; questo perché il cineasta de Il curioso caso di Benjamin Button (2008) insisteva con il girare Mank in bianco e nero – cosa che poi riuscì a fare grazie a Netflix e alla sua notoria “libertà creativa”.
Con quest’opera il cineasta de The Social Network (2010) si inserisce, nel filone filmico dei 8½ (1963) di Federico Fellini ed Effetto Notte (1973) di François Truffaut; Lo stato delle cose (1982) di Wim Wenders, Nuovo Cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore e C’era una volta a… Hollywood (2019) di Quentin Tarantino. Un ridare al cinema secondo la propria visione, e realizzare qualcosa che nella maggior parte dei casi è puro gioiello (meta)filmico; e in questo – nonostante tutto – Mank non fa eccezioni.
Nel cast figurano Gary Oldman, Amanda Seyfried, Lily Collins, Tuppence Middleton, Charles Dance; e ancora Toby Leonard Moore, Tom Pelphrey, Arliss Howard, Monika Gossmann, Joseph Cross, Sam Troughton e Tom Burke.
Sinossi
Victorville, America, 1940. Herman J.Mankiewicz (Gary Oldman) si dirige, assieme alla domestica Freida (Monika Gossmann) e l’assistente Rita (Lily Collins), verso una baita fuori Los Angeles affittatagli da Orson Welles (Tom Burke). L’impegno è dei più ardui, Mankiewicz ha infatti l’incarico di scrivere quella che sarà la prima opera originale di Welles.
Questi infatti, dopo il successo clamoroso del programma radiofonico La guerra dei mondi (1938), è diventato il ragazzo prodigio più interessante di Hollywood. Pur di averlo in scuderia, RKO gli ha dato carta bianca su tutto, perfino sul final cut – a soli 24 anni; toccherà a Mankiewicz tener fede alle aspettative, ispirandosi alla vita di William Randolph Hearst (Charles Dance) e all’amante Marion Davies (Amanda Seyfried).
Lo sceneggiatore giunto al tramonto della carriera, vive con frustrazione il successo dell’astro nascente del cinema americano; dovendo combattere con un galoppante alcolismo, il contemporaneo successo del fratello Joseph (Tom Pelphrey) e un matrimonio in pezzi con “la povera Sara” (Tuppence Middleton).
Herman J.Mankiewicz: non soltanto Quarto potere
In Mank gli presta il volto uno straordinario Gary Oldman, dando così lustro e “nuova vita” a uno dei più grandi sceneggiatori della Golden Age americana; ma Herman J.Mankiewicz è ben oltre lo scrittore “problematico” al centro del racconto di Fincher. Quarto potere lo portò alla ribalta, dandovi finalmente il riconoscimento con cui consegnarlo all’immortalità cinematografica; la sua storia inizia però quindici anni prima, con il soggetto redatto per The Road to Mandalay (1926) di Tod Browning.
Un’epoca di produzione industriale massiccia la Golden Age, soggetti semplici di ancora più facile fruizione ma terribilmente vivaci. Mankiewicz viaggiava sui 6-7 script l’anno, o comunque collaborazioni tra “titoli” e “dialoghi”. Fu sua, infatti, la firma ne I signori preferiscono le bionde (1928) di Malcolm St. Clair (poi riletto da Howard Hawks nel 1953 come Gli uomini preferiscono le bionde) e Crepuscolo di gloria (1928) di Josef von Sternberg; sua ancora la firma su Laughter (1930) con Nancy Carroll, quell’autentico gioiello de La guerra lampo dei Fratelli Marx (1933) di Leo McCarey e Pranzo alle otto (1933) di George Cukor.
Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, arriva la vera svolta nella carriera per Mankiewicz, collaborando così per Il mago di Oz (1939) di Victor Fleming e il sopracitato Quarto potere; per chiudere infine con L’idolo delle folle (1942) di Sam Wood, epica sportiva con uno strepitoso Gary Cooper nei panni di Lou Gehrig. L’ultima firma di Mankiewicz risale al 1952, con ancora una storia con il baseball sullo sfondo: The Pride of St.Louis (1952) di Harmon Jones – che chiuse definitivamente una carriera di 93 collaborazioni a cavallo tra cinema classico e moderno americano.
Mank e la mimesi narrativa con Quarto potere
C’è un’aura magica attorno a Mank, il cineasta di Se7en (1995) infatti, realizza un’opera che vive e traspare dalla sua struttura fortemente caratteristica. Viaggiando in una sagace a-linearità dall’andamento netto, spedito, che avvolge lo spettatore lungo tutto il dispiego dell’intreccio. Fincher dà così forma e contenuto a una narrazione che è un continuo giocare con la ratio filmica di Quarto potere; lavorando di suggestioni, atmosfere e la voce altisonante di un’ectoplasmatico Welles, che nel riecheggio della sua aura magnetica si fa largo nella narrazione tra telefonate e voci rimbombanti; per comparire, infine, nella climax, da depotenziato genio capriccioso dalla lettura kealiana.
Un confronto a distanza quello tra Mankiewicz e Welles – il genio decaduto schiacciato dai vizi e dal proprio ego, e il genio emergente, autentico Re Mida hollywoodiano – che si dipana sullo sfondo del racconto. Fincher gli costruisce attorno un bricolage narrativo manieroso, codificando nella sopracitata a-linearità una narrazione che nel dispiego dell’intreccio diventa passepartout e decodifica delle ragioni dietro a Quarto potere; “scorcio di vita” di Mankiewicz; e infine quadro storico accurato tra i primi vagiti della paura verso il comunismo e purissimo meta-cinema.
Intenti che il cineasta di Zodiac (2007) compie in un formidabile gioco di mimesi tra la struttura narrativa di Quarto potere e Mank. Parallelismi eccezionali tra i momenti di gloria di Kane all’Inquire e quelli di Mankiewicz alla MGM per toni e “sapore della scena”; un procedere parallelo a (quasi) ottant’anni di distanza in un dare e prendere che è un giocare con il tempo e la storia tra il cinema moderno e contemporaneo americano lungo le rispettive narrazioni.
Un link ipotetico quindi, che Fincher codifica nell’insolito (e innovativo) punto di vista dello sceneggiatore Mankiewicz; avvolgendolo in un linguaggio filmico vivace e ricercato che è pura esperienza sensoriale. Il cineasta de Gone Girl (2014) infatti, fa vivere Mank tra elementi testuali di sceneggiatura, audio ovattato come nelle epoche passate, macchie sullo schermo da “cambio di bobina” e composizione d’immagine che denota un uso del chiaroscuro e della profondità di campo prettamente wellesiani.
Questa è la magia del cinema
A un certo punto del racconto, Fincher affida all’agente scenico dell’Houseman di Troughton, una sferzante critica al lavoro di Mankiewicz; pieno riflesso, ex post, di come la gente avrebbe accolto il capolavoro di Welles: “[…] Lei sta chiedendo molto al pubblico cinematografico, tutto sommato è un gigantesco groviglio. Un guazzabuglio di conversazioni. Una collezione di frammenti che rimbalzano nel tempo come fagioli salterini messicani. La storia è così frammentata che temo ci vorrà una tabella di marcia.”
Critica a cui il Mankiewicz di Oldman risponde così, “anticipando” gli effetti della rivoluzione filmica del “suo” Quarto potere: “La narrazione è come un unico grande cerchio, è come una girella alla cannella; non è una linea retta che punta all’uscita più vicina.”
In fondo è questo Mank, un ripercorrere “il cerchio” per riavvolgere il tempo e giocare con il cinema e la sua spiccatissima componente “meta” tra citazioni testuali a L’uomo della Virginia (1929), The Four Feathers (1929), Tradimento (1929), Love Among the Millionaires (1930); e i volti di Louis B.Mayer, Irving G. Thalberg, Charlie Lederer, George Kaufman, Shelly Metcalf; Ben Hecht, David O.Selznick, John Gilbert, Joseph L. Mankiewicz, Orson Welles; e naturalmente lui, Herman J. Mankiewicz.
Se la gioca così Fincher, celebrando il talento di un’anima condannata e (non più) dimenticata, per farlo (e farci) rivivere negli anni della Golden Age nel modo più romantico possibile; avvolgendolo in un viaggio dell’eroe dei più classici – “dalle stalle” del letto in cui era bloccato, “alle stelle” con l’Oscar 1942 per la Miglior sceneggiatura originale.
Un’epica del self-made-man che è storia di redenzione e corruzione d’animo, di vizi e virtù. Una rinascita che nel suo affondare le radici narrative nella sconclusionata tesi sostenuta da Pauline Keal vede drasticamente depotenziare la propria carica rivoluzionaria; riducendo così, Citizen Mank, a un mero divertissement da celebrazione “paterna”, piuttosto che documento storico attendibile – non intaccando quindi, in alcun modo, la strategica importanza di Orson Welles nella storia del cinema.
Mank è disponibile su Netflix dal 4 dicembre 2020.
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Fonte immagini: imdb.com