Muse, un ritorno agli anni ’80 con tante idee e poca sostanza

Simulation Theory è il nuovo disco dei Muse, un salto indietro della band verso le sonorità degli anni ’80

Muse
Fonte muse.com

I Muse tornano sulla scena con il loro nuovo Simulation Theory, uscito a tre anni dal precedente Drones.

Proseguendo sulla via dell’elettro-rock, la band anche per questo lavoro ripiega su un uso massiccio dell’elettronica, che va a scavalcare quasi totalmente l’anima rock che conosciamo. Indubbiamente il sound è più coerente rispetto ai precedenti tentativi ma è comunque più pop.

Strizzando l’occhio agli anni ’80 i Muse portano in scena un caleidoscopio di tastiere e sonorità sintetiche. Sembra proprio che la band di Bellamy per ritrovare un po’ dell’originalità che li ha sempre contraddistinti abbia dovuto fare un salto indietro nel tempo.

Se siete alla ricerca del disco dei Muse con quei bei riff di chitarra taglienti e le ritmiche aggressive, mi spiace ma siete fuori rotta. Se volete un prodotto più “poppeggiante” e dall’anima anni ’80, allora potete fermarvi e buttare l’orecchio a questo Simulation Theory.

Un disco pop che strizza l’occhio agli anni ’80

Dalle prime note di Algorithm viene alla luce il cambio di rotta della band: sonorità sintetiche, ritmiche secche e scandite fanno da “ponteggio” a tastiere dai toni pomposi e con un pizzico di solennità propria dell’attitude dei Muse. L’ingresso della voce riporta alla mente i pezzi più epici della band, solo rimaneggiati in una chiave più artificiale.

The Dark Side è un inno agli anni ’80, con questa ritmica sincopata e i synth ossessivi e circolari. Un pezzo pop di quelli di una volta, non male ma nemmeno tra i più originali della band.
Diciamo che i Muse hanno fatto una sintesi di se stessi, diventando un composto artificiale della loro arte, una sorta di miscela sintetica che mescola quella “liricità” di un tempo a una vena spudoratamente pop.

Pressure è uno dei singoli estratti dal disco ed è uno dei brani con la linea melodica più coinvolgente degli ultimi tempi. Un pezzo carino, dove torna la chitarra seppur in una veste più melodica ma che ci riporta alla mente i pezzi più riusciti dei Muse. L’anello di congiunzione tra il rock di prima e la vena anni ’80 di adesso. Non male.

Muse
Fonte: Panorama

Propaganda è un pezzo completamente sintetico, dove la band decide di portare in scena una sorta di funk dalle sonorità artificiali con una strizzata d’occhio a certi brani di Prince. Un pezzo piuttosto freddo, complice anche la scelta di certe sonorità, si ascolta ma sembra sempre piuttosto innaturale o distaccato.

Break it to Me è forse uno dei brani più brutti della band che si avvicina a questa sorta mash-up di sonorità legate tra loro da una sorta di linea melodica dall’anima orientaleggiante. Questo è il classico pezzo pop bruttino che però riesce ad insinuarsi nella mente dell’ascoltatore.

Something Human ha quasi una andamento dai toni tropicali, una sorta di “tropical-pop”, con qualche incursione pianistica più “intellettuale” ma un fastidio di sottofondo (dovuto forse ai coretti) che non va via per tutta la durata del brano.

Thought Contagion parte con questo intro dai toni sintetici e pomposi per poi ricadere su una sorta di rap un po’ scontato. Molto belle le incursioni di sintetizzatore che ci riportano alla mente i Muse mastodontici ed estremamente lirici, ma inascoltabile la parte (quasi) rappata.

Parecchie buone idee ma un disco con poca sostanza.

Get Up and Fight sembra un mix tra le sonorità dei Linkin Park più pop e i Muse di una volta, quelli dove Bellamy ci metteva davvero la voce. Il risultato è un pezzo che si apprezza per metà: un po’ per i brani di contorno, un po’ per questa situazione pop e un po’ perché, diciamocelo, ci piacevano i Muse taglienti e lirici.

Blockades è il classico pezzo pop degli anni ’80, tipo quelli di David Hasselhoff magari meno coatti e più fastosi, ma il succo è quello. Il problema è proprio questo: i Muse si sono “incoattiti” non poco e hanno cercato di diventare pop sintetizzando il loro grande talento e riproponendolo in questa chiave tamarra e danzereccia.

Dig Down è il singolo che anticipato il disco ed è una sorta cover di Madness, un’auto-citazione a se stessi in sintesi. Questa è esattamente l’esatta tipologia di brani che sembrano piacere a Bellamy e basta perché vanno contro sia i fan del rock che i fan del dubstep. Un pezzo, in sostanza, che non è né carne e né pesce.

Fonte: Rockol

Chiude il disco The Void una sorta di elettro-litania dai toni oscuri. Il pezzo resta tutto atmosfera e voce per buona parte della sua durata, fino all’ingresso della ritmica che lo trasforma in un brano dance alla Supercar (di cui sopra). Molto bello però l’arrangiamento di pianoforte che si può sentire per quasi tutto il brano.

Il disco, proprio come il precedente, ha parecchie buone idee. C’è qualche bella linea melodica, qualche assolo non male e qualche altra cosetta che colpisce davvero, ma nel complesso è un disco fine a se stesso, che non sorprende come i dischi dei Muse di una volta e lascia in testa solo qualche motivetto sciapo e senza spessore.

Simulation Theory, un disco senza spessore.

Fino a che lo si ascolta su Spotify e fino a che c’è qualche brano infilato in scaletta nei concerti può anche andare bene ma per il resto è un disco come tanti: una buona produzione, parecchie idee niente male ma poca sostanza.

La band ha provato a scrivere un disco su questi tempi nevrotici dove si cerca di evadere dalla realtà in tutti i modi possibili, andando anche a simulare una vita irreale e assurda. Per raggiungere l’obiettivo hanno scelto di ricorrere a questa simulazione di se stessi e della musica anni ’80 andando a emulare il passato senza (forse) averlo compreso e senza che questo possa risultare realmente vicino alla realtà delle cose.

 

SE QUESTO ARTICOLO TI È PIACIUTO, SOSTIENI WILD ITALY CON UNA DONAZIONE!

Mirco Calvano

La musica è la mia passione: sul palco dietro una batteria e sotto al palco in un mare sterminato di dischi. Laureato in Letteratura, Musica e Spettacolo e in Editoria e Scrittura a La Sapienza di Roma, passo il mio tempo tra fogli bianchi, gatti e bacchette spezzate. CAPOSERVIZIO MUSICA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Shares