Puglia, Nizza e le colpe dei media
Ho volutamente aspettato prima di scrivere qualcosa su quanto successo in Puglia e a Nizza. Volevo sia che la polvere, alzata come sempre da media che obbediscono all’overload informativo che la fa da padrone, si cominciasse a diradare sia che venissero abbassate penne e videocamere.
Mentre Erdogan torna sulla sua poltrona più forte di prima in seguito a un tentato golpe, colgo l’occasione per fare una riflessione su una settimana che, comunque, non è stata ovviamente delle migliori.
Partiamo da un punto fermo: il giornalista “ricerca, raccoglie, elabora e diffonde con la maggiore accuratezza possibile ogni dato o notizia di pubblico interesse secondo la verità sostanziale dei fatti“. Questo c’è scritto tra i fondamenti deontologici del Testo Unico dei doveri del giornalista. Nella Carta di Treviso (altro documento fondamentale dell’Ordine dei giornalisti mirato alla tutela dei minori), si legge poi che: “nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi ad un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona“.
Nella settimana che ci siamo appena lasciati alle spalle però – dopo gli atroci accadimenti della Puglia e di Nizza – è venuto fuori come questi banali principi (di puro buon senso) non rappresentino più un imperativo categorico per il settore dei cosiddetti “operatori dell’informazione”.
Davanti ad ogni tragedia assistiamo, inevitabilmente, a ricostruzioni basate sul nulla (si sciorinano, per esempio, almeno tre provenienze geografiche diverse dell’attentatore e altrettanti dettagli sulla sua vita prima di avere informazioni certe) e a video, foto di quanto accaduto sparati su tutti i media, contrassegnati da messaggi enfatici per attirare il lettore/telespettatore ad approfondire la visione o la lettura.
Caso emblematico quello di Nizza: la foto di una bambina sdraiata, coperta da un telo, con accanto la sua bambola. Per non parlare del video che mostra chiaramente il momento in cui il tir travolge i passanti o, come nello scontro tra i due treni in Puglia, i collegamenti sul posto, le interviste fatte ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime per cercare di cogliere una parvenza di notizia, una lacrima.
Sarà folle o anche semplicemente retorico dirlo ma non è questo il modo di fare informazione, concependola in questo modo morboso, mirando alla pancia del cittadino.
Non ho remore nel dire che la colpa di certi bassi sentimenti, che molte volte attraversano la nostra penisola dopo casi di questo tipo, è anche nostra. La responsabilità, in sostanza, è di un giornalismo incapace spesso di raccontare, senza ricorrere a toni sensazionalistici, il mondo che cambia – evolvendo o involvendo – e che ha come unico obiettivo l’argomentare a suon di “Clicca qui! Guarda cos’è successo! Incredibile!”.
E’ un meccanismo che non funziona, che non può continuare e che non fa bene a nessuno. Tanto meno ai nostri primi datori di lavoro: i cittadini. Ricordiamocelo, prima di scattare la prossima foto o di lanciare la prossima notizia.