Torino: il Centro e la Crisi

Stamane mi sono ritrovato a passeggiare per il centro di Torino. Il grigiore della mattina e il freddo pungente rendono l’idea di un fine Gennaio più caldo delle passate medie stagionali, non solo sul fronte meteorologico.  La vita lungo  via Po è come sempre frenetica, con il suo traffico mattutino, le persone che scrutano le vetrine dei negozi e gli attivisti di greenpeace che cercano di sensibilizzare i passanti recuperando magari qualche proselito.

Per un attimo la vita normale della città porta a dimenticare i disagi e le proteste che  percorrono l’Italia in questi giorni. Non si vede la crisi nelle vetrine dei negozi che espongono i cartelli “Saldi” o nei bar del centro città. Ma è sufficiente arrivare in piazza Castello, centro nevralgico e culturale della città, per ritrovarsi a sguazzare nella realtà della crisi e della protesta.

Di fronte agli uffici della prefettura, fra il Palazzo Reale e il Teatro Regio, un assembramento di persone, in buona parte poliziotti in tenuta anti-sommossa e vigili urbani riuniti in salotti di chiacchiera, attira la mia attenzione.  Pochi cartelli, un solo striscione, ma molte teste e bocche screpolate che si lamentano , discutono e protestano. Avvicinandomi al gruppo mi rendo conto che si tratta di due manifestazioni differenti e distinte, unite solamente dal luogo e dal disagio.

Il primo gruppo è quello dei lavoratori della De Tomaso di Grugliasco, azienda del settore automobilistico celebre per le produzioni di lusso e qualità. Circa 900 operai si trovano in cassa integrazione da diversi mesi e ora rischiano di perdere anche questa con la prospettiva di restare con le mani vuote e senza alcuna risposta. Chiedono la sicurezza di ricevere la cassaintegrazione anche per questo mese di Gennaio e di avere delle certezze sul futuro dell’azienda.

Il freddo leggero è spazzato via dagli animi accalorati degli operai che discutono energicamente creando capannelli intorno ai delegati sindacali che lamentano la mancanza di risposte da parte della prefettura e della stessa azienda. Accanto a loro, a pochi metri di distanza, la situazione oltre che più calda è anche più “scura”.

Un centinaio di rifugiati, provenienti per la maggior parte dall’Africa centro-occidentale, lamentano le condizioni di disagio profondo in versano le loro vite. Uno striscione recita: “Basta razzismo, vogliamo i documenti”. Chiedono di essere trattati da esseri umani. Roberto, che a scanso del nome italianissimo (o italianizzato) è un rifugiato del Niger, lamenta le condizioni in cui è costretto a vivere nel campo per rifugiati di via Calabria:” Non abbiamo scarpe, non abbiamo vestiti. Tutto ciò che indossiamo lo abbiamo dovuto comprare con i nostri soldi e spesso i commercianti aumentano i prezzi quando vedono che parliamo poco la lingua o che siamo rifugiati.” Per mangiare come fate? “ mangiamo malissimo, ogni giorno pasta, non mangiamo altro. Alcuni di noi stanno male, ma se non mangiamo quello che ci danno ..moriamo di fame”.

Mentre con difficoltà cerco di parlare con altri ragazzi che come Roberto lamentano le  gravi condizioni in cui versano i centri per rifugiati, si avvicina a me Alex, un ragazzo dell’Associazione 3 Febbraio che da anni si occupa di dare assistenza agli immigrati e  ai rifugiati. Mi aiuta traducendo quello che molti ragazzi non riescono a spiegare se non in un inglese stentato o direttamente nella loro lingua. “

Alcuni di loro stanno nel campo da più di 10 mesi in attesa delle commissioni incaricate di intervistarli e valutare se abbiano o meno i requisiti per ottenere lo stato di rifugiato o l’asilo politico. Le poche volte che queste commissioni lavorano negano i permessi. In Piemonte, e a Torino in particolare, più del 90% delle richieste di asilo vengono rifiutate. Così gli immigrati sono costretti a restare nei centri a tempo indeterminato o, nella peggiore delle ipotesi, vengono mandati nei CIE con la prospettiva di essere rispediti a casa nel giro di 30 giorni”.

Chiedo ad Alex cosa facciano le istituzioni per risolvere questo problema o perlomeno per arginare il fenomeno di questa povertà estrema nella quale affogano centinaia di immigrati ogni giorno. Mi risponde che la comunità europea stanzia una cifra che corrisponde a circa 70 euro al giorno e a persona per ciascuno dei rifugiati. “Non è male… sulla carta. Perché la burocrazia italiana è complicata e piena di passaggi poco chiari. I fondi europei passano per tutti i livelli dell’amministrazione pubblica prima di arrivare nelle mani delle cooperative che si occupano dell’assistenza, in questo modo, dei settanta euro al giorno che dovrebbero spettare a ogni immigrato, vengono consegnate loro due schede telefoniche del valore di 5 euro ciascuna.

È una situazione insostenibile, la maggior parte di loro è depressa e senza nessuna prospettiva. Quando la rabbia cresce si vedono manifestazioni di violenza che vengono duramente represse e i responsabili sono espulsi dal centro e non vengono riassegnati da un’altra parte. Li buttano in mezzo alla strada senza nemmeno una coperta per proteggersi dal freddo.” 

Un operaio della De Tomaso sente tutto e commenta: “Ma se non sanno parlare neanche l’italiano, cosa vogliono lavorare?”. Gli immigrati provano a rispondere in un italiano effettivamente molto stentato, ma la spiegazione che danno è semplice e concreta: “Non abbiamo  i soldi per andare a scuola, siamo tutti iscritti ai centri territoriali, ma il comune non ha mai risposto alle nostre richieste di poter accedere a delle tariffe agevolate anche solo per arrivare a scuola.” Jaimu, un senegalese alto e grosso quasi si commuove quando dice: “Io voglia parlare Italia, voglia vivere Italia, voglia lavorare Italia, ma Italia no vuole me, no vuole noi”.

Saluto i ragazzi, pronto a tornare a casa per scrivere qualcosa su ciò che ho visto, per raccontare il disagio che si è riunito in quei pochi metri di fronte alla prefettura. Storie lontane che si scrutano e non riescono ad essere solidali sotto il grigio leggero di quella che ormai è diventata l’ora di pranzo. Pensavo a come riportare gli sfoghi e le confessioni appuntate nella mia agenda, quando nel bel mezzo della piazza, proprio davanti al Palazzo della Regione, vedo un altro sit-in, un’altra protesta stavolta scenograficamente più forte e di respiro nazionale. Ci sono gli ex lavoratori della Wagon Lits, licenziati dall’azienda per cui lavoravano in seguito alla soppressione da parte di Trenitalia dei Treni Notte. Tre di loro, a Milano, vivono da più di 50 giorni su una torre al binario 24 della Stazione Centrale.

In piazza Castello, a raccogliere firme e sensibilizzare i tanti che si avvicinano per chiedere informazioni o esprimere solidarietà, c’è Michele, ex lavoratore dell’azienda, che mi dice:” Il signor Moretti (AD di Trenitalia ndr) ha pensato bene di eliminare i treni notte motivando la sua scelta con le poche prenotazioni ricevute. In realtà il sistema di prenotazione è stato bloccato perché Trenitalia tiene più ad un trasporto d’élite che passi per i Freccia Rossa o per altre linee ad alta velocità. Sono riusciti a dividere l’Italia. Adesso per andare da Nord a Sud sono necessarie ore di viaggio, intervallate da un numero importante di scambi e coincidenze non sempre coincidenti con grande disagio dei passeggeri”. Michele s’infervora: “come si può permettere che i passeggeri, magari anziani, siano costretti a fare un viaggio che spesso supera le 12 ore seduti su un sedile scomodo e su vagoni pieni come carri bestiame?”. Tutto questo lo avete detto anche a Trenitalia?    “Certamente, ma non abbiamo avuto nessuna risposta. L’unica cosa che abbiamo sono le nostre famiglie da sfamare e da vestire. 800 famiglie che da un giorno all’altro si sono ritrovate con le tasche vuote e troppe porte chiuse davanti.” Per oggi ho visto e sentito abbastanza.

Saluto Michele e firmo l’appello indirizzato al Presidente Napolitano. Di ritorno verso casa passo per la via Garibaldi, centro commerciale della città. Entro in qualche negozio per chiedere un’impressione ai proprietari e ai dipendenti sullo shopping in tempo di crisi. Alcuni non vogliono rispondere, forse timorosi della strategia Monti di lotta all’evasione fiscale, probabilmente mi hanno scambiato per un finanziere in borghese pronto a giudicare e condannare. I pochi che rispondono parlano di crisi nera, dell’assenza di fila davanti ai negozi. “Il primo giorno è stato il più duro,  pareva di essere all’ultimo( giorno ndr) dei saldi, invece era il primo.” Dice una commessa di un negozio di calzature.

“Le poche persone che entrano in negozio non comprano niente, provano e basta”. La proprietaria di un negozio di abbigliamento dice che: “comprano solo i turisti”, mentre la proprietaria di un bar alla fine della via, all’angolo con piazza Solferino, è più precisa:” Da trent’anni lavoro qui e raramente ho visto pochi clienti come in questo periodo”. Colpa della crisi? “Non solo. Come possiamo pretendere che la gente venga a compare e consumare o anche solo a fare una passeggiata quando ampliano le ZTL e aumentano i parcheggi? Il tempo libero è diventato un lusso, la gente preferisce comprare il caffè al supermercato e farlo a casa con la moka.”

Una crisi di sistema insomma, un problema legato all’aumento dei prezzi, alla diminuzione del reddito e aggravato dalle politiche comunali che in periodo di magra per le casse del comune aumenta dove può ticket e tariffe dei parcheggi. L’ultimo commento, il più semplice e diretto che meglio esprime la situazione in cui versa il sistema Italia in questo Gennaio freddo e bollente, è quello di una commessa di un negozio di intimo che alla domanda: Che impressione mi puoi dare su questo periodo di crisi? Risponde: ”Lascia perdere”.

MARCELLO FADDA

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